Jus superveniens nel giudizio civile di legittimità

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Costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo jus superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato agli specifici e rituali motivi di ricorso.

Lo ha ribadito la Corte Suprema di Cassazione – sezione lavoro – con sentenza n. 17840 del 9 settembre 2015

Jus superveniens nel giudizio civile di legittimità

Jus superveniens nel giudizio civile di legittimità

Il caso

Un lavoratore stipulò con la società Poste Italiane un contratto di lavoro a tempo determinato in data 14.7.2000 per esigenze connesse al godimento di ferie da parte dei lavoratori in servizio.

La sentenza di primo grado

Il Tribunale di Grosseto dichiarò la nullità della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro indicato; l’esistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato da tale data, condannando la società Poste al pagamento delle retribuzioni dalla costituzione in mora.

La sentenza di appello

La Corte d’appello di Firenze, con sentenza depositata il 27 giugno 2009, respingeva il gravame proposto dalla società Poste.

Da qui il ricorso per cassazione di quest’ultima, al quale resiste il lavoratore con controricorso.

Il primo motivo di ricorso

Con il primo motivo la ricorrente denuncia la contraddittorietà della motivazione della Corte territoriale circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, e cioè l’esistenza di un limite temporale di validità alle pattuizioni delle parti sociali ex art. 23 della legge n. 56 del 1987, nonché violazione, per lo stesso motivo, degli artt. 1 e 2 della legge n. 230 del 1962, oltre che dell’art. 23 della legge n. 56 del 1987, nonché degli accordi sindacali del 25 settembre 1997 e successive modifiche ed integrazioni.

Il motivo viene ritenuto infondato.

Difatti, secondo i giudici di piazza Cavour, la Corte di merito non ha dubitato della facoltà delle parti sociali di prevedere liberamente nuove ipotesi di assunzione a termine in base all’ampia delega contenuta nell’art. 23 L. n. 56 del 1987, ma ha tuttavia ritenuto, in linea con la giurisprudenza di questa Corte e dell’autonomia negoziale collettiva, che tali pattuizioni contenessero un preciso limite temporaneo di validità, da individuarsi nel 30 aprile 1998 (ex plurimis, Cass. 9 giugno 2006 n.13458, Cass.20 gennaio 2006 n.1074, Cass.3 febbraio 2006 n.2345, Cass. 2 marzo 2006 n.4603). In tali pronunce la Suprema Corte ha chiarito che negando che le parti collettive, con l’accordo del 25 settembre 1997, avessero inteso introdurre limiti temporali al ricorso ai contratti a termine, si dovrebbe concludere che gli accordi attuativi sopra indicati non avrebbero avuto alcun senso, neppure se considerati come meramente ricognitivi.

In particolare – proseguono gli Ermellini, se il contratto del 25 settembre 1997 non avesse previsto alcun termine di efficacia per la facoltà conferita all’Azienda di stipulare i contratti a termine – essendo questa consentita al definitivo compimento della ristrutturazione – non avrebbe avuto alcun senso stipulare gli accordi attuativi in cui invece un termine risulta indicato; una diversa interpretazione, ad avviso della Corte di legittimità, escluderebbe qualunque effetto sia all’accordo attuativo in pari data, in cui si dava atto che l’azienda si trovava in stato di ristrutturazione fino al 31 gennaio 1998, sia al successivo accordo “attuativo” del 16 gennaio 1998, giacché nulla ci sarebbe stato da “attuare” e nulla da “riconoscere” dal punto di vista temporale. Ancora minore senso avrebbe avuto la pattuizione contenuta in quest’ultimo accordo per cui ai contratti a termine poteva procedersi fino al 30 aprile 1998, ovvero che la società sarebbe stata specificamente legittimata a ricorrere ai contratti a termine “oltre” la data fissata.

I precedenti giurisprudenziali sul punto.

La Suprema Corte ricorda che come efficacemente chiarito da Cass. 9 aprile 2008 n. 9259 e quindi da Cass. 28 ottobre 2010 n. 22015, l’art. 23 della legge n. 56 del 1987, nel consentire alla contrattazione collettiva di individuare nuove ipotesi rispetto a quelle previste dalla legge n. 230 del 1962, non impone di fissare contrattualmente dei limiti temporali alla facoltà di assumere lavoratori a tempo determinato, ma, ove un limite sia stato invece previsto, la sua inosservanza determina la illegittimità del termine apposto.

Il secondo motivo di diritto

Con il secondo motivo la società ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1372 c.c., oltre a vizio di motivazione, (art. 360, comma 1, nn.3 e 5 c.p.c.) per avere la Corte territoriale escluso nella fattispecie la risoluzione del contratto per mutuo consenso, a fronte del lasso di tempo intercorso dalla cessazione di fatto del rapporto al primo atto di costituzione in mora accipiendi.

Perché la Suprema Corte rigetta anche tale motivo?

Secondo il consolidato orientamento di legittimità (cfr. da ultimo Cass. 28.1.14 n. 1780, Cass. 11.3.11 n. 5887, Cass. 18.11.10 n. 23319, Cass. 15.11.10 n. 23057; Cass. 11.3.11 n. 5887, Cass. 4.8.11 n. 16932), ai fini della configurabilità della risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso – costituente una eccezione in senso stretto, Cass. 7 maggio 2009 n. 10526, il cui onere della prova grava evidentemente sull’eccepiente, Cass. febbraio 2010 n. 2279 – non è di per sé sufficiente la mera inerzia del lavoratore dopo l’impugnazione del licenziamento, essendo piuttosto necessario che sia fornita la prova di altre significative circostanze denotanti una chiara e certa volontà delle parti di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo.

Il terzo motivo di ricorso

Con il terzo motivo la ricorrente si duole delle conseguenze patrimoniali riconosciute dal giudice d’appello in conseguenza della riconosciuta illegittimità del contratto a termine in questione, lamentando in particolare il mancato esercizio dei poteri istruttori ufficiosi del giudice al riguardo.

Il quesito di diritto formulato in relazione al terzo motivo del ricorso.

La ricorrente formula il seguente quesito di diritto:” Dica la Corte se, nei caso di oggettiva difficoltà della parte ad acquisire precisa conoscenza degli elementi sui quali fondare la prova a supporto delle proprie domande o eccezioni — e segnatamente per la prova dell’aliunde perceptum – il Giudice debba valutare le richieste probatorie con minor rigore rispetto all’ordinario, ammettendole ogni volta che le stesse possano comunque raggiungere un risultato utile ai fini della certezza processuale e rigettandole (con apposita motivazione) solo quando gli elementi somministrati dal richiedente risultino invece insufficienti ai fini dell’espediente richiesto”.

Gli Ermellini ritengono il motivo inammissibile, in linea con quanto evidenziato dal consolidato orientamento di legittimità (ex plurimis, Cass. n. 27470/14).

La richiesta di applicazione dello jus superveniens costituito dall’art. 32, commi 5, 6 e 7, della L. n. 183 del 2010.

Anche tale richiesta viene rigettata dallla Suprema Corte.

Ed invero i giudici di piazza Cavour evidenziano che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo jus superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato agli specifici e rituali motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27 febbraio 2004 n. 4070).

E poiché tale condizione non ricorre nella fattispecie, il ricorso viene respinto.

Una breve riflessione

La sentenza in rassegna appare interessante per il giurista poiché chiarisce se e in che misura lo jus superveniens con efficacia retroattiva possa trovare asilo nel procedimento civile di legittimità.

E la Suprema Corte chiarisce che dello jus superveniens intervenuto dopo la proposizione del ricorso se ne dovrà tenere conto, anche in sede di legittimità, ma a condizione che:

  1. l’innovazione normativa inferisca direttamente il perimetro del devolutum,
  2. l’innovazione normativa non intacchi la esistenza di giudicati interni.

Con riferimento al punto sub 1) si segnala Cass. 4070/2004 secondo cui lo jus superveniens non potrà che afferire ad un profilo della norma applicata investito, anche indirettamente, dei motivi di ricorso. Diguisachè, ove la norma “innovativa” riguardi una questione non fatta oggetto di motivo di ricorso, non vi sarà spazio per la valutazione dello jus superveniens.

Con riferimento al punto sub 2) si segnala Cass. 8933/2003 secondo cui, vero è che lo jus superveniens può essere rilevato e quindi applicato di ufficio, ma esso incontra, purtuttavia, il limite derivante dall’eventuale giudicato interno formatosi in relazioni a punti, non oggetto di ricorso, sui quali pertanto è cessata ogni controversia.

In conclusione, lo jus superveniens, anche se con efficacia retroattiva, non potrà, sic et simpliciter, trovare applicazione nel procedimento di legittimità, ma occorrerà valutare, caso per caso, se esso abbia una diretta relazione con i motivi di ricorso (valutazione di tipo positivo) e se sui punti in relazione ai quali essa interviene non si sia formato il giudicato interno (valutazione di tipo negativo).

Si tratta in realtà di uno stesso aspetto visto da due angolazioni diverse.

avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)

managing partner at clouvell (www.clouvell.com)

 

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