Vizio di omesso esame della domanda: la sostanza della pretesa dedotta in giudizio prevale sul tenore meramente letterale.

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Il giudice del merito, nell’indagine diretta all’individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non deve limitarsi al tenore meramente letterale degli atti nei quali esse sono contenute, dovendo egli avere invece riguardo al contenuto sostanziale della pretesa dedotta.

E’ quanto stabilito dalla Suprema Corte di Cassazione – sezione terza – con sentenza 13 aprile 2015 n.7374

Vizio di omesso esame della domanda: la sostanza della pretesa dedotta in giudizio prevale sul tenore meramente letterale.

Vizio di omesso esame della domanda: la sostanza della pretesa dedotta in giudizio prevale sul tenore meramente letterale.

Il caso 

Un contraente proponeva domanda innanzi al Tribunale chiedendo la risoluzione del contratto per grave inadempimento dell’altro contraente, la restituzione delle somme sborsate ed il risarcimento del danno.

Il Tribunale, previo espletamento di una ctu, accoglieva le domande attoree.

Controparte interponeva appello avverso la sentenza e l’appellato svolgeva, a sua volta, appello incidentale in relazione al mancato accoglimento della domanda di risoluzione del contratto avanzata in primo grado.

La Corte di appello ribaltava la sentenza, annullando la pronunzia in punto di restituzione delle somme e rigettava l’appello incidentale.

Da qui il ricorso per cassazione.

Con uno dei motivi, l’attore (in primo grado) deduceva violazione degli articoli 112 cpc, 1175-1176 e 1375 cod.civ., per avere la corte di appello erroneamente affermato la violazione da parte del tribunale dell’articolo 112 codice di procedura civile; là dove il primo giudice, a dire della corte territoriale, avrebbe affermato la responsabilità di Creative srl per un inadempimento contrattuale (omissione dei test necessari a verificare la compatibilità della protesi con la cute del paziente) diverso da quello dedotto in giudizio da esso attore (difformità della protesi impiantata rispetto al tipo di intervento contrattualmente pattuito). Contrariamente a tale assunto, il tribunale non era incorso in alcuna violazione del principio di correlazione tra il chiesto ed il pronunciato, avendo motivatamente riscontrato l’effettiva sussistenza dei gravi inadempimenti da esso attore fin dall’inizio addebitati a Creative srl.

Perché la Corte di Cassazione ritiene fondato il motivo.

Secondo la Suprema Corte, la corte territoriale ha ravvisato la violazione dell’articolo 112 cpc da parte del tribunale poiché quest’ultimo, pur senza arrivare alla pronuncia di risoluzione contrattuale, aveva accolto la domanda risarcitoria individuando a carico di Creative srl due specifici inadempimenti, insiti (sent. pag.5): – nel non aver mostrato al Castaldo la protesi prima di consegnargliela; – nel non aver sottoposto il Castaldo “ai necessari test preventivi per appurare l’esistenza di eventuali patologie che avrebbero potuto causare problemi in seguito all’applicazione della protesi”. Tali addebiti, secondo la corte di appello, dovevano ritenersi diversi da quelli dedotti in giudizio dal Castaldo, basati essenzialmente sulla difformità della protesi impiantata rispetto alla descrizione dell’intervento originariamente pattuito in contratto.

Per gli Ermellini questa affermazione non è dirimente in quanto il Tribunale ha ravvisato l’inadempimento di Creative S.r.l., sia nel non aver mostrato al Castaldo la protesi prima della sua installazione, sia nel non aver appurato la tolleranza del soggetto alla protesi medesima. La mancata effettuazione dei test preventivi – reputati “necessari” dal tribunale alla realizzazione dello scopo contrattuale – aveva fatto sì che il Castaldo, poco dopo l’applicazione della protesi, avesse riportato alcuni disturbi (“prurito, senso di peso al capo e cefalea”) risultanti dalla certificazione medica in atti e, comunque, ritenuti dal ctu causalmente riferibili alla protesi stessa. Diversamente da quanto sostenuto dalla corte territoriale, l’affermazione del tribunale non andava oltre la domanda del Castaldo, dal momento che fin dall’atto di citazione in primo grado (riportato in ricorso) questi aveva chiesto la risoluzione del contratto per grave inadempimento di Creative S.r.l.; insito sia nella difformità del prodotto rispetto alla previsione contrattuale (“installazione di una guaina di plastica munita di capelli finti, in sostanza né più né meno che una parrucca”, a fronte dell’impegno ad effettuare l’infoltimento con capelli veri radicati su tessuto dermatologicamente compatibile), sia nella sua “totale inadeguatezza” rispetto agli scopi connaturati al contratto.

Il principio richiamato dalla Suprema Corte

Secondo la Suprema Corte di cassazione, il giudice del merito, nell’indagine diretta all’individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non deve limitarsi al tenore meramente letterale degli atti nei quali esse sono contenute; dovendo egli avere invece riguardo al contenuto sostanziale della pretesa dedotta, come desumibile dalla natura delle vicende allegate e rappresentate dalla parte istante. Sicché incorre nel vizio di omesso esame il giudice di merito che limiti la sua pronuncia alla sola prospettazione letterale della pretesa, trascurando la ricerca dell’effettivo suo contenuto sostanziale. (Cass. n. 23794 del 14/11/2011 ed altre).

Una breve riflessione.

Il principio affermato dalla Suprema Corte con la sentenza richiamata appare davvero interessante. In un clima di crescente formalismo, la Corte di legittimità ci consola andando “oltre le righe” e scendendo alla sostanza delle cose.

Il monito lanciato al giudice di merito è quello di non fermarsi all’apparenza, alla superficialità, ma di andare a fondo della vicenda, di ricerca la verità e la ratio della pretesa avanzata da chi chiede giustizia.

Il principio espresso ci ricorda un po’ il contenuto di quella disposizione legislativa sulla interpretazione delle norme (art. 12 preleggi) in forza della quale “nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse , e dalla intenzione del legislatore”.

Nell’articolo 12 delle preleggi, accanto al dato letterale vi è l’intenzione del legislatore. Nel caso affrontato dalla sentenza, accanto al tenore meramente letterale, vi è l’effettivo contenuto sostanziale della domanda. Si tratta di due facce della stessa medaglia, anche se l’uno si riferisce all’attività ermeneutica rispetto al dato normativo, l’altro si riferisce all’attività ermeneutica rispetto alla domanda giudiziale.

Epperò, detta così, la questione appare semplice e quasi ovvia. Ma, nei fatti, non lo è.

Ogni qualvolta si parla di interpretazione si rimanda ad un concetto che soffre la soggettività e quindi la discrezionalità di colui che interpreta, Ciò può (in)generare una incertezza che potrebbe riverberarsi negativamente su una delle parti in causa la quale ha interpretato un dato, una parola, una frase, in maniera difforme rispetto alla interpretazione data poi dal giudice in sentenza. Ciò che è successo nel caso in esame.

Rileggendo gli atti processuali, che la Corte di appello si sia fermata al dato letterale senza andare alla sostanza è pur sempre valutazione di merito, valutazione interpretativa che non ha una sua oggettività concreta.

Pertanto, certamente corretto appare il principio della Suprema Corte, ma, nella applicazione pratica vi saranno problematiche proprio per i margini di incertezza che connotano una attività interpretativa come quella giudiziale.

avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)

managing partner at clouvell (www.clouvell.com)

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