Corte Suprema di Cassazione – sezione terza civile – sentenza n. 24639 del 3 dicembre 2015

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I FATTI

(eredi cliente Omissis), eredi di (cliente Omissis), convenivano in giudizio l’avv. (avvocato Omissis) chiedendo che questi fosse condannato a corrispondere a ciascuna di esse la quota parte rispettivamente spettante dell’importo di euro 61.474,91, incassato dal (avvocato Omissis) su mandato della (cliente Omissis), a conclusione del procedimento per il riconoscimento alla (cliente Omissis) dell’indennità di accompagnamento curato dal legale.

Nel frattempo l’avv. (Omissis), non avendo ricevuto il pagamento delle prestazioni professionali fruite dalla sig. (cliente Omissis), chiedeva ed otteneva due distinti decreti ingiuntivi nei confronti delle due (eredi cliente Omissis). Le sig. (eredi cliente Omissis) proponevano opposizione, i giudizi venivano riuniti ed il giudice di primo grado condannava l’avv. (Omissis) a restituire l’importo di euro 19.000,00 a ciascuna delle opponenti.

L’avv. (Omissis) proponeva appello, allegando al ricorso in appello i fascicoli dei procedimenti monitori nei quali erano contenuti la documentazione dell’attività professionale svolta in favore della (cliente Omissis) ed anche le raccomandate con le quali aveva invitato le sorelle (eredi cliente Omissis) a ritirare le somme di rispettiva pertinenza, ed a saldare la parcella per le sue competenze professionali.

La corte d’appello, con la sentenza qui impugnata, disponeva lo stralcio dei documenti prodotti dall’appellante per la prima volta in appello ritenendo la produzione documentale inammissibile ex art. 345 c.p.c. e confermava la sentenza di primo grado.

L’avv. (Omissis) propone ricorso per cassazione articolato in due motivi avverso la sentenza n. 1098 del 2012 della Corte d’Appello di Roma, redatta in calce al verbale di udienza in data 28.2.2012.

Resistono con controricorso (eredi cliente Omissis).

L’avv. (Omissis) ha depositato memoria nella quale sostiene la tardività del deposito del controricorso delle (eredi cliente Omissis).

LE RAGIONI DELLA DECISIONE

Va preliminarmente esaminata la questione della tempestività del controricorso, sollevata dal ricorrente con la memoria.

Il ricorrente sostiene che, poiché nel caso di specie il ricorso è stato notificato in data 7 marzo 2013, il termine per il deposito di esso scadeva il 27.3.2013 ed il successivo termine per la notifica del controricorso scadeva il 16.4.2013. Essendo stato il controricorso consegnato all’ufficiale giudiziario per la notifica solo in data 18.4.2013, lo stesso sarebbe tardivo.

Questa ricostruzione cozza contro la consolidata interpretazione in tema di decorrenza dei termini data dalla Corte.

L’art. 370 c.p.c. prevede che il contro ricorrente debba notificare il ricorso al ricorrente nel domicilio eletto entro venti giorni dalla scadenza del termine stabilito per il deposito del ricorso. Il termine stabilito dal precedente art. 369 c.p.c. per il deposito del ricorso è di venti giorni dall’ultima notificazione.

Tuttavia, in riferimento al termine per il deposito del ricorso il riferimento alla “notificazione” va inteso come notificazione perfezionatasi per il destinatario, per rispettare la logica espressa da Corte cost. n. 477 del 2002 e n. 28 del 2004. Questa Corte ha più volte ribadito che la distinzione dei momenti di perfezionamento della notifica per il notificante e il destinatario dell’atto, risultante dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, trova applicazione solo quando dall’intempestivo esito del procedimento notificatorio, per la parte di questo sottratta alla disponibilità del notificante, potrebbero derivare conseguenze negative per il notificante, quale la decadenza conseguente al tardivo compimento di attività riferibile all’ufficiale giudiziario, non anche quando la norma preveda che un termine debba decorrere o un altro adempimento debba essere compiuto dal tempo dell’avvenuta notificazione, come per il deposito del ricorso per cassazione e del controricorso, dovendo essa in tal caso intendersi per entrambe le parti perfezionata, come si ricava dal tenore testuale dell’articolo 369 cod. proc. civ., al momento della ricezione dell’atto da parte del destinatario, contro cui l’impugnazione è rivolta (in questo senso Cass. n. 10837 e 14742 del 2007 e, di recente, Cass. 24346 del 2013).

Poiché nel caso di specie la notifica del ricorso è stata ricevuta dal destinatario l’11.3.2013, la notifica del controricorso intrapresa il 18.4.2013 risulta collocarsi nei quaranta giorni successivi, quindi deve ritenersi tempestiva. Diversamente opinando si porrebbe a carico del controricorrente l’alea dei tempi di notifica del ricorso, ovvero un elemento che sfugge alla sua possibilità di controllo e si ridurrebbe in dipendenza di tale elemento il lasso di tempo a disposizione del controricorrente per predisporre le sue difese e portarle a conoscenza della controparte.

Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione e\ o falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c.

Segnala che la corte d’appello, pur richiamando alcuni precedenti di legittimità che hanno affermato la possibilità di produrre per la prima volta in appello i documenti prodotti nella fase monitoria ma non nel giudizio di primo grado senza andare incontro al divieto dei nova in appello fissato dall’art. 345 c.p.c., se ne è discostata motivando sul punto, ritenendo non convincentemente delineato da tali pronunce il concetto della indispensabilità di nuove prove.

Il motivo è fondato e va accolto.

Sui limiti della ammissibilità della produzione documentale in appello si è pronunciata come è noto Cass. S.U. n. 8203 del 2005 (secondo la quale “Nel rito ordinario, con riguardo alla produzione di nuovi documenti in grado di appello, l’art. 345, terzo comma, cod.proc.civ. va interpretato nel senso che esso fissa sul piano generale il principio della inammissibilità di mezzi di prova <nuovi> – la cui ammissione, cioè, non sia stata richiesta in precedenza – e, quindi, anche delle produzioni documentali, indicando nello stesso tempo i limiti di tale regola, con il porre in via alternativa i requisiti che tali documenti, al pari degli altri mezzi di prova, devono presentare per poter trovare ingresso in sede di gravame (sempre che essi siano prodotti, a pena di decadenza, mediante specifica indicazione degli stessi nell’atto introduttivo del giudizio di secondo grado, a meno che la loro formazione non sia successiva e la loro produzione non sia stata resa necessaria in ragione dello sviluppo assunto dal processo): requisiti consistenti nella dimostrazione che le parti non abbiano potuto proporli prima per causa ad esse non imputabile, ovvero nel convincimento del giudice della indispensabilità degli stessi per la decisione. Peraltro, nel rito ordinano, risultando il ruolo del giudice nell’impulso del processo meno incisivo che nel rito del lavoro, l’ammissione di nuovi mezzi di prova ritenuti indispensabili non può comunque prescindere dalla richiesta delle parti”).

Per quanto concerne in particolare il procedimento monitorio, però, questa Corte ha già avuto modo di affermare, come richiamato dal ricorrente, che il procedimento che si apre con la presentazione del ricorso per decreto ingiuntivo e si chiude con la notifica del decreto stesso non è autonomo rispetto a quello che si apre con l’opposizione di cui all’art. 645 cod. proc. civ._ Di conseguenza, si è ritenuto che nel giudizio di opposizione, ove la parte opposta non abbia allegato al fascicolo nel termine di cui all’art 184 cod. proc. civ., la documentazione posta a fondamento del ricorso monitorio, tale documentazione possa essere utilmente prodotta nel giudizio di appello, non potendosi considerare come nuova (Cass. n. 11817 del 2011).

Poiché la questione della conciliabilità o meno della possibilità di produrre per la prima volta in appello il fascicolo di parte della fase monitoria e i documenti ivi contenuti con il divieto di produzione di nuove prove in appello continuava ad avere soluzioni non perfettamente coincidenti nella giurisprudenza di legittimità, la questione è stata sottoposta alle Sezioni Unite che hanno recentemente composto il contrasto in relazione a questa specifico aspetto della più generale questione della ammissibilità di nuove prove in appello, affermando che “L’art.345, terzo comma, cod. proc. civ. (nel testo introdotto dall’art. 52 della legge 26 novembre 1990, n. 353, con decorrenza dal 30 aprile 1995) va interpretato nel senso che i documenti allegati alla richiesta di decreto ingiuntivo e rimasti a disposizione della controparte, agli effetti dell’art. 638, terzo comma, cod. proc. civ., se pur non prodotti nuovamente nella fase di opposizione, rimangono nella sfera di cognizione del giudice di tale fase, in forza del principio “di non dispersione della prova” ormai acquisita al processo, e non possono perciò essere considerati nuovi, sicché, ove siano in seguito allegati all’atto di appelli) contro la sentenza che ha definito il giudizio di primo grado, devono essere ritenuti (Cass. S.U. n. 14475 del 2015).

La sentenza impugnata propugna argomenti tenuti in conto e non condivisi da tale recentissimo arresto giurisprudenziale, intervenuto proprio a comporre il contrasto esistente sul punto senza segnalare aspetti che possano indurre a riconsiderare la questione. Essa va pertanto cassata in accoglimento del primo motivo.

Con il secondo motivo si denuncia l’omessa motivazione sul punto della ritenzione delle somme da parte dell’avv. (Omissis).

Il motivo è in sé così genericamente formulato da essere inammissibile, in quanto non puntualizza neppure se fosse stata proposta una domanda di accertamento dell’illegittimo esercizio del diritto di ritenzione da parte del legale, se essa fosse stata rigettata o meno, se sull’eventuale rigetto fosse stato proposto appello.

Dalla lettura della sentenza emerge che la corte territoriale si è motivatamente pronunciata sul punto, a pag. 1 della motivazione, affermando che, non contestato in fatto che l’avv. (Omissis) trattenesse sul proprio conto somme di spettanza delle eredi (cliente Omissis), tali somme, in difetto di un diverso accordo avrebbero dovuto essere consegnate presso il loro domicilio ex art. 1183 terzo comma c.c, fermo restando il diritto del legale ad ottenere anche il rimborso delle spese per l’esecuzione del mandato.

La corte pertanto ha negato con argomentazioni fondate su presupposti in fatto non contestati (l’incasso da parte del (avvocato Omissis) delle somme spettanti alla sua cliente su mandato di questa) il diritto di ritenzione del legale, né il ricorrente contesta argomentatamente il contenuto della motivazione evidenziandone la mera apparenza o l’incoerenza motivazionale.

Il primo motivo di ricorso va pertanto accolto, inammissibile il secondo, e la sentenza impugnata va cassata con rimessione alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione che deciderà anche sulle spese esaminando i documenti facenti parte del fascicolo monitorio dell’avv. (Omissis) che questi aveva prodotto in appello, in conformità al principio di diritto sopra riportato.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa anche per la decisione sulle spese alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione.

Così deciso nella camera di consiglio della Corte di cassazione il 23 ottobre 2015

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