Danno da demansionamento e criteri di calcolo

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Ai fini della determinazione del pregiudizio – e quindi del danno – subito dal lavoratore per effetto di accertato demansionamento, vanno considerati: la qualifica del lavoratore la durata del demansionamento, l’evoluzione organizzativa e tecnica delle mansioni precluse al lavoratore. Detti elementi, da considerarsi sintomatici di un pregiudizio alla professionalità del lavoratore, giustifica la liquidazione del danno in una misura quantificabile al 30% della retribuzione percepita dal lavoratore.

Lo ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione – sezione lavoro – con sentenza n. 21254 depositata il 28 agosto 2018

Il caso 

Danno da demansionamento e criteri di calcolo

Danno da demansionamento e criteri di calcolo

Il Tribunale territorialmente competente accoglieva la domanda di una lavoratrice nei confronti del proprio datore di lavoro relativamente all’accertamento di un demansionamento ed alla richiesta di risarcimento del danno; respingeva, invece, la domanda di differenze retributive.

La Corte di appello, rigettato l’appello principale del datore di lavoro ed accolto quello incidentale della lavoratrice, condannava la società al pagamento di un’ulteriore somma (euro 56.638,41) a titolo di differenze di retribuzione oltre accessori.

La sentenza di appello

La Corte distrettuale osservava che alla lavoratrice erano state affidate attività semplici e ripetitive che non richiedevano particolari cognizioni tecniche, né implicavano assunzioni di responsabilità e che, pertanto, non erano congruenti con il livello di quadro di secondo livello, riconosciutole in via giudiziale, con decorrenza dal 3.11.1995; quanto alle differenze di retribuzione, la Corte di merito riteneva dovuti gli importi richiesti dalla lavoratrice, a titolo di assegno personale quadri e voce denominata ASS72, in difetto di prova di un meccanismo di riassorbimento in ragione della promozione; per le differenze sulla parte variabile della retribuzione a titolo di straordinario, missioni, produttività ed incentivi, i giudici di merito osservavano che le stesse erano riconosciute in  busta paga e, tuttavia, erano state corrisposte in misura inferiore al dovuto. Da qui il ricorso per cassazione del datore di lavoro.

I motivi di ricorso

Con il primo motivo, la società deduce – ai sensi dell’art. 360 nr. 3 cod.proc.civ. – la violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 cod. civ; assume che, nell’assegnazione della lavoratrice ad un particolare ufficio, era stato rispettato il principio della sussistenza di esigenze tecniche, organizzative e produttive.

Il motivo viene dichiarato inammissibile per novità della censura.

Ricordano gli Ermellini che nel giudizio di cassazione è preclusa alle parti la prospettazione di nuove questioni che postulino indagini e accertamenti di fatto non compiuti dal giudice del merito, a meno che tali questioni non abbiano formato oggetto di gravame o di contestazione nel giudizio di appello, nel rispetto del contraddittorio.

Ne consegue che ove una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata il ricorrente che la proponga in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dare modo alla Corte di cassazione di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima ancora di esaminare nel merito la questione stessa ( ex plurimis, Cass. nr. 13547 del 2014).

Nella sentenza impugnata, la questione dell’assegnazione ad un particolare Ufficio, in relazione al profilo denunciato, non è specificamente affrontata e – proseguono i giudici della Suprema Corte – la parte ricorrente non ha allegato di avere riproposto la questione nella memoria di costituzione nel giudizio di appello, come era suo onere ex articolo 346 cod. proc.civ.

Tale allegazione, per assolvere alla prescrizione di specificità dei motivi di ricorso ex articolo 366 nr. 6 cod. proc. civ., avrebbe dovuto essere articolata dalla ricorrente anche trascrivendo le parti rilevanti della memoria difensiva d’appello (oltre all’onere di deposito dell’atto ai sensi dell’articolo 369 nr. 4 cod. proc. civ.)

Con il secondo motivo, è dedotta – ai sensi dell’art. 360 nr. 3 cod. proc. civ – violazione e falsa applicazione dell’art. 421 cod. proc. civ . in tema di poteri istruttori del giudice e dell’art. 11 Cost.

Si assume che il giudice di merito avrebbe accertato il demansionamento «sulla base del solo capitolo di prova da lui direttamente formulato e diretto ad accertare le mansioni concretamente svolte presso un particolare ufficio, con riferimento all’intero periodo di assegnazione» senza prendere in considerazione le ulteriori circostanze rappresentate dalla proposta di ricollocazione della lavoratrice e dal suo rifiuto e dal fatto che presso uno degli Uffici, classificato A2, e quello di altra filiale non vi erano disponibili uffici di livello A2 privi di titolare, tanto che si rendeva necessario riformulare, al riguardo, prove testimoniali anche in appello.

Secondo la Corte Suprema il motivo sembra riferirsi all’uso di poteri istruttori da parte del giudice di primo grado, del cui esercizio la parte ricorrente si duole. I giudici di piazza Cavour – di conseguenza – come per la censura oggetto del primo motivo, rilevano che la relativa questione non risulta affrontata nella sentenza impugnata, sicché il rilievo incontra i medesimi limiti.

I motivi terzo e quarto vengono dichiarati inammissibili.

Con il quinto motivo – ai sensi dell’art. 360 nr. 3 cod.proc.civ – è censurata la violazione degli artt. 2043 e 1226 cod.civ .

E’ ribadita l’assenza di un demansionamento e, conseguentemente, è dedotto il difetto dei presupposti del diritto al risarcimento del danno; in ogni caso, è censurata la sentenza nella parte in cui riconosce un pregiudizio alla professionalità e procede alla sua determinazione con i medesimi criteri utilizzati dal giudice di primo grado.

Sul punto i giudici di Piazza Cavour osservano che i giudici di merito, quanto al pregiudizio subito per effetto dell’accertato demansionamento ed in punto di determinazione del danno, hanno considerato la qualifica non trascurabile ( di quadro di secondo livello) della lavoratrice, la durata del demansionamento ( 134 mesi), l’evoluzione organizzativa e tecnica delle mansioni precluse alla stessa e ritenuto che detti elementi, sintomatici di un pregiudizio alla professionalità, giustificassero la liquidazione, come già operata in primo grado dal Tribunale, in una misura quantificabile al 30% della retribuzione percepita dalla lavoratrice.

Secondo i giudici di piazza Cavour, in tale ragionamento non è ravvisabile alcun errore o violazione dei principi elaborati dalla Suprema Corte; quest’ultima, in proposito, ribadisce che l’esercizio, in concreto, del potere discrezionale conferito al giudice di liquidare il danno in via equitativa non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità quando la motivazione della decisione dia adeguatamente conto dell’uso di tale facoltà, indicando il processo logico e valutativo seguito (Cass. nr. 24070 del 2017) e non vi sia un macroscopico scostamento da dati di comune esperienza o una radicale contraddittorietà delle argomentazioni (Cass. nr. 12253 del 2015; nr. 18778 del 2014).

Con i motivi dal sesto al tredicesimo, il datore di lavoro  censura la violazione dei canoni di ermeneutica contrattuale ai sensi dell’art. 1362 cod. proc. civ. ( il sesto, l’ulteriore sesto, l’ottavo, il decimo) nonché la violazione e falsa applicazione – ai sensi dell’art. 360 nr. 3 cod.proc.civ. – dell’art. 55 del CCNL 1994 ( settimo motivo) degli artt. 67 del CCNL 1994, 60 del CCNL del 2001, 63 del CCNL 2003, 66 del CCNL del 2007 ( l’ulteriore settimo), degli artt. 29 e 73 del CCNL del 1994, 39 del CCNL del 2001 e del 2003, 42 del CCNL 2007 ( nono motivo) degli artt. 68 del CCNL del 1994, 61 del CCNL , 64 DEL ccnI DEL 2003 e 60 del ccnI del 2007 ( undicesimo motivo).

Per i giudici della Suprema Corte, le censure si arrestano al rilievo di inammissibilità, per difetto di specificità.

Difatti – proseguono gli Ermellini – quando sia denunziata in ricorso la violazione di norme del contratto collettivo la deduzione della violazione deve essere accompagnata dalla trascrizione integrale delle clausole, al fine di consentire alla Corte di individuare la ricorrenza della violazione denunziata ( cfr. Cass. nr. 25728 del 2013; Cass. nr. 2560 del 2007; Cass. nr. 24461 del /2005 ) nonché dal deposito integrale della copia del contratto collettivo (Cass., sez. un., nr. 20075 del 2009) o dalla indicazione della sede processuale in cui detto testo è rinvenibile ( Cass., sez. un., nr. 25038 del 2013).

Nella fattispecie di causa, le clausole del contratto collettivo di cui si denunzia la violazione (articoli) sono riportate solo per sintesi del contenuto sicché non è consentito alla Corte di Cassazione alcun esame del loro effettivo ed integrale tenore testuale. Da qui il rigetto del ricorso.

Una breve riflessione

Interessante decisione quella in esame. La Suprema Corte, nell’esaminare uno dei tredici motivi di ricorso proposti dal datore di lavoro,  si sofferma, sia pur sinteticamente, sui criteri di determinazione del danno conseguente al demansionamento del lavoratore.

I criteri considerati sono:

  • la qualifica del lavoratore;
  • la durata del demansionamento;
  • l’evoluzione organizzativa e tecnica delle mansioni precluse al lavoratore.

Per gli Ermellini, detti elementi, da considerarsi sintomatici di un pregiudizio alla professionalità del lavoratore, giustificano la liquidazione del danno in una misura quantificabile al 30% della retribuzione percepita dal lavoratore.

Ovviamente non si tratta di un criterio tipizzato, ma di una liquidazione “equitativa” del danno.

Del resto, come ha chiarito la Suprema Corte in sentenza – il potere discrezionale conferito al giudice di liquidare il danno in via equitativa non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità quando la motivazione della decisione dia adeguatamente conto dell’uso di tale facoltà, indicando il processo logico e valutativo seguito (Cass. nr. 24070 del 2017) e non vi sia un macroscopico scostamento da dati di comune esperienza o una radicale contraddittorietà delle argomentazioni (Cass. nr. 12253 del 2015; nr. 18778 del 2014).

Avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)

Managing partner at clouvell (www.clouvell.com)

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