Corte di Cassazione – sezione seconda civile – sentenza n.15537 del 23 luglio 2015

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RITENUTO IN FATTO

1. – (Omissis), titolare dell’omonima ditta esercente commercio all’ingrosso di giocattoli convenne in giudizio, innanzi al Tribunale di Agrigento, la società (Omissis), in persona del suo legale rappresentante pro-tempore, chiedendone la condanna alla restituzione della somma di € 5.731,49 (maggiorata degli interessi), quale indebito oggettivo derivante dall’erroneo pagamento, da parte di essa attrice, di una somma eccedente quella dovuta a titolo di corrispettivo per la consegna della merce di cui alla fattura n. 1896 emessa il 22.10.2001.

La società convenuta resistette alla domanda, assumendo che la fattura di cui sopra, col relativo documento di trasporto, era risultata erronea, in quanto menzionava un numero di pezzi molto inferiore rispetto a quelli effettivamente forniti (n. 7.272, piuttosto che 14.544), tanto che essa convenuta dovette emettere una seconda fattura (la n. 1480 del 26.9.2002) relativa all’ulteriore quantità di merce fornita. Pertanto, secondo la convenuta, quanto pagato dall’attrice sarebbe stato corrispondente alla fornitura realmente effettuata.

Il giudice adito accolse la domanda e condannò la società convenuta a restituire la somma pretesa, maggiorata degli interessi legali, nonché a rifondere all’attrice le spese del giudizio.

2. – Sul gravame proposto dalla (Omissis), la Corte di Appello di Palermo, con sentenza del 28.4.2009, previa assunzione della prova per testi dedotta dall’appellante, in riforma della sentenza del primo giudice, rigettò la domanda di parte attrice e condannò quest’ultima a restituire alla convenuta quanto dalla stessa pagato in esecuzione della sentenza di primo grado, maggiorato degli interessi legali, nonché a rifonderle le spese dei due gradi del giudizio.

3. – Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione (Omissis), formulando tre motivi.

Resiste con controricorso la società (Omissis), che ha depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. – Col primo motivo, si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 246 cod. proc. civ. Si deduce, in particolare, che la Corte territoriale avrebbe errato nell’ammettere la testimonianza di (Omissis), il quale — essendo rappresentante e agente di zona della (omissis) — avrebbe avuto un interesse nella causa che avrebbe legittimato la sua partecipazione al giudizio, in ragione della provvigione a lui spettante in funzione del volume degli affari procacciati.

La censura non può trovare accoglimento.

Innanzitutto, va rilevato come l’eccezione di nullità della prova, posta a fondamento della censura, risulti inammissibile, non essendo stata tempestivamente dedotta da parte attrice.

Sul punto, questa Corte suprema ha ripetutamente statuito che l’eventuale nullità derivante dalla incapacità di un teste rimane sanata qualora la relativa eccezione non venga ritualmente e tempestivamente proposta immediatamente dopo che la prova è stata assunta e ribadita in sede di precisazione delle conclusioni, ex art. 189 cod. proc. civ., risultando pertanto tardivo il rilievo effettuato solo con la comparsa conclusionale. Ne consegue che, qualora la parte in sede di ricorso per cassazione deduca l’omessa pronuncia del giudice d’appello su detta eccezione, adducendo di averla formulata nella conclusionale di primo grado e poi proposta come motivo d’appello, la Corte di Cassazione può rilevare d’ufficio che l’eventuale nullità derivante dall’incapacità del teste è rimasta sanata per l’irritualità della relativa eccezione di modo che resta irrilevante l’omissione di pronuncia (Sez. 3, Sentenza n. 6555 del 29/03/2005, Rv. 581357; Sez. 3, Sentenza n. 23054 del 30/10/2009, Rv. 610609; da ultimo, Sez. 3, Sentenza n. 2075 del 29/01/2013, Rv. 624951).

Nella specie, è sufficiente evidenziare che nulla la ricorrente deduce circa la formulazione di tempestiva eccezione — dinanzi alla Corte di Appello — in ordine alla incapacità del teste ai sensi dell’art. 246 cod. proc. civ., la quale avrebbe dovuto essere proposta nell’immediatezza dell’assunzione della prova; anzi, sul punto la Corte territoriale ha sottolineato (p. 7 della sentenza impugnata) come non solo le parti non abbiano censurato l’ordinanza ammissiva della prova, ma la parte attrice abbia chiesto di essere ammessa a prova contraria col medesimo teste (Omissis). Evidente, dunque, l’inammissibilità della censura.

In ogni caso la doglianza è priva di fondamento.

Questa Corte ha costantemente affermato che l’incapacità a deporre prevista dall’art. 246 cod. proc. civ. si verifica solo quando il teste è titolare di un interesse personale, attuale e concreto, che lo coinvolga nel rapporto controverso, alla stregua dell’interesse ad agire di cui all’art. 100 cod. proc. civ., sì da legittimarlo a partecipare al giudizio in cui è richiesta la sua testimonianza, con riferimento alla materia che ivi è in discussione, non avendo invece rilevanza né l’interesse di fatto a un determinato esito del giudizio stesso — salva la considerazione che di ciò il giudice è tenuto a fare nella valutazione dell’attendibilità del teste — né un interesse, riferito ad azioni ipotetiche, diverse da quelle oggetto della causa in atto, proponibili dal teste medesimo o contro di lui, a meno che il loro collegamento con la materia del contendere non determini già concretamente un titolo di legittimazione alla partecipazione al giudizio. Ne consegue che il procacciatore di affari non è incapace a testimoniare nella controversia relativa al pagamento del corrispettivo della fornitura di merci, non coinvolgendo la stessa il diritto del teste a percepire la provvigione per aver prestato la sua opera ai fini della conclusione del contratto dedotto in lite, atteso che il rapporto che lo lega ad una o ad entrambe le parti integra unicamente un elemento per la valutazione della sua attendibilità (Sez. 2, Sentenza n. 9353 del 08/06/2012, Rv. 622641; Sez. 3, Sentenza n. 2075 del 29/01/2013, Rv. 624950).

Nella specie, il (Omissis) — essendo mero rappresentante di commercio della (Omissis) — non è portatore di un interesse giuridico idoneo a legittimare l’azione o l’intervento in giudizio, cosicché non sussiste la pretesa incapacità a testimoniare. E peraltro, i giudici di merito hanno tenuto conto della suddetta qualità del (Omissis) al fine di valutare la sua attendibilità.

2. – Col secondo e col terzo motivo di ricorso, che possono essere trattati unitariamente, si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 111 Cost. e 346-352-356 cod. proc. civ., nonché il vizio di motivazione della sentenza impugnata, in relazione alla mancata ammissione della testimonianza di (Omissis), dedotta in primo grado e reiterata con l’atto di appello. Si deduce che il giudice del gravame avrebbe errato nel ritenere rinunciata l’istanza istruttoria non accolta perché non ribadita all’udienza fissata per l’assunzione della prova (ma ribadita in sede di precisazione delle conclusioni). Si deduce ancora l’omessa motivazione della sentenza impugnata relativamente alla mancata ammissione della prova suddetta, prova che sarebbe stata non solo rilevante, ma anche decisiva ai fini della ricostruzione del fatto.

Anche queste censure non possono trovare accoglimento.

Innanzitutto, va rilevata l’inammissibilità della censura circa la pretesa violazione di legge per violazione del principio di autosufficienza del ricorso.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, condivisa dal Collegio, per soddisfare il requisito imposto dall’articolo 366 comma primo n. 3 cod. proc. civ., il ricorso per cassazione deve contenere l’esposizione chiara ed esauriente, sia pure non analitica o particolareggiata, dei fatti di causa, dalla quale devono risultare le reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le giustificano; le eccezioni, le difese e le deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, lo svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni, le argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si fonda la sentenza impugnata e sulle quali si richiede alla Corte di cassazione, nei limiti del giudizio di legittimità, una valutazione giuridica diversa da quella — asseritamene erronea — compiuta dal giudice di merito. Il principio di autosufficienza del ricorso impone che esso contenga tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo, ivi compresa la sentenza stessa (Sez. 2, Sentenza n. 7825 del 04/04/2006, Rv. 590121; Sez. 6 -3, Ordinanza n. 1926 del 03/02/2015, Rv. 634266).

Tale principio si applica anche nel caso in cui il ricorrente denunzi che il giudice di appello abbia omesso di tener conto delle richieste formulate nel verbale di udienza o in sede di precisazione delle conclusioni, essendo in tal caso onere del ricorrente trascrivere le richiamate richieste, onde consentire alla Corte di valutare la fondatezza del motivo senza dover procedere all’esame degli atti. Non avendo il ricorrente assolto tale onere, non potendosi dalla lettura del ricorso verificare se e in quale momento processuale la parte attrice abbia insistito nell’istanza di ammissione del mezzo di prova, la censura risulta inammissibile.

In ogni caso, le censure in esame risultano infondate.

Secondo la giurisprudenza di questa S.C., qualora la parte che abbia indicato un teste richieda la fissazione dell’udienza di precisazione delle conclusioni, la stessa manifesta con tale inequivoco comportamento la sua volontà di rinunciare all’audizione del teste stesso e se la controparte aderisce alla richiesta di remissione della causa al collegio in sostanza accede alla rinuncia al teste (Sez. L, Sentenza n. 550 del 24/01/1981, Rv. 411025).

Nella specie, pertanto, l’istanza istruttoria proposta dalla parte e non accolta con l’ordinanza collegiale del 21.2.2007, avrebbe dovuto essere reiterata all’udienza del 4.5.2007 destinata all’assunzione della testimonianza di altro teste. Avendo la ricorrente richiesto e comunque aderito al rinvio per precisazione delle conclusioni, correttamente la Corte territoriale ha ritenuto la sua rinunzia implicita all’istanza istruttoria formulata con la comparsa di risposta. Tanto più che, in forza del principio di unicità della prova testimoniale, le contrapposte prove testimoniali inerenti allo stesso oggetto devono essere dedotte ed ammesse unitariamente, prima dell’assunzione del mezzo istruttorio (Sez. 1, Sentenza n. 5090 del 12/03/2004, Rv. 571053; Sez. 2, Sentenza n. 8840 del 27/08/1990, Rv. 469086; Sez. 2, Sentenza n. 9864 del 11/05/2005, Rv. 582001).

Nella specie, la circostanza su cui il teste (Omissis) avrebbe dovuto essere interrogato — secondo l’articolo di prova dedotto da parte attrice (come riprodotto nel ricorso) — riguardava la quantità della merce effettivamente consegnata, ossia la medesima circostanza su cui era stato ammessa la deposizione del teste (Omissis).

Trattandosi del medesimo thema probandum, era onere della parte — per il principio di unicità della prova testimoniale — contestare l’ordinanza ammissiva, contenente il rigetto implicito della prova da essa dedotta, nella prima udienza successiva all’emanazione dell’ordinanza e prima della assunzione delle dichiarazioni dell’altro teste. Non avendo la parte tempestivamente insistito nella sua originaria istanza di ammissione della prova e avendo — al contrario — consentito al rinvio per la precisazione delle conclusioni, va ritenuta la sua tacita rinuncia alla prova.

Esattamente, pertanto, la Corte territoriale ha ritenuto di non poter prendere in esame la successiva — quanto tardiva — richiesta di ammissione della medesima prova, asseritamente formulata dalla ricorrente in sede di precisazione delle conclusioni.

3. Il ricorso deve pertanto essere rigettato, con conseguente condanna della parte ricorrente, risultata soccombente, al pagamento delle spese processuali, liquidate come in dispositivo.

P. Q. M.

La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese processuali, che liquida in € 2.200 (duemiladuecento), di cui 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione Civile, addì 26 maggio 2015.

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