Acquisto di merce contraffatta: rilevanza penale o amministrativa?

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La nozione di acquirente finale di merce contraffatta – che consente di escludere la punibilità ex art. 648 cod. pen. – va intesa in senso restrittivo, nel senso che può essere considerato tale solo ed esclusivamente colui che acquisti il bene contraffatto per uso strettamente personale, e, quindi, resti estraneo non solo al processo produttivo ma anche a quello diffusivo del prodotto contraffatto: di conseguenza, risponde del delitto di ricettazione chi, acquistando un bene contraffatto, contribuisca alla ulteriore distribuzione e diffusione di esso in quanto non lo destina a sè, ma ad altri, essendo irrilevante se l’ulteriore distribuzione avvenga a titolo oneroso o gratuito.

Lo ha ribadito la Suprema Corte di Cassazione – sezione seconda penale – con sentenza – n. 12870 del 9 marzo 2016

Acquisto di merce contraffatta: rilevanza penale o amministrativa?

Acquisto di merce contraffatta: rilevanza penale o amministrativa?

Il caso 

La Corte di Appello di Lecce – sez. distaccata di Taranto – in parziale riforma della sentenza pronunciata in primo grado dal giudice dell’udienza preliminare del Tribunale della medesima città, assolveva un imputato dal reato di cui all’art. 474 cod. pen. e confermava la sentenza nella parte in cui lo aveva ritenuto colpevole del delitto di ricettazione.

La sentenza d’appello

La Corte, in punto di fatto, premetteva che l’imputato era stato fermato alla guida di un’autovettura a bordo della quale trasportava in un borsone e in una busta vari capi di abbigliamento (n° 29) di note marche che presentavano chiari segni di contraffazione (materiali, etichette, marchi, tessuto, cuciture e serigrafie non conformi agli originali). La Corte, tuttavia, riteneva che quella condotta non concretizzasse quella della “messa in vendita” e neppure quella di “detenzione finalizzata alla vendita” di prodotti industriali con marchi o segni distintivi contraffatti di cui all’art. 474 cod. pen., difettando ogni prova in ordine al fatto che i capi di abbigliamento fossero destinati alla successiva vendita. La Corte, però, riteneva ugualmente sussistente il reato di ricettazione in quanto il reato presupposto era quello «previsto e punito dall’art. 473 cod. pen. alla commissione del quale, evidentemente, l’imputato non ha concorso poiché, in caso contrario, egli non avrebbe potuto rispondere anche del delitto di ricettazione, stante la clausola di salvaguardia prevista dall’art. 648 cod. pen.».

Il ricorso per cassazione.

Contro la suddetta sentenza, l’imputato, a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione, deducendo i seguenti motivi:

Violazione dell’art. 648 cod. pen.: la difesa sostiene che, essendo stato l’imputato assolto dal reato presupposto di cui all’art. 474 cod. pen., avrebbe dovuto essere assolto anche dal delitto di ricettazione, in quanto, essendo un consumatore finale, la Corte avrebbe dovuto applicare il principio di diritto enunciato dalle SSUU n. 22225/2012 secondo il quale «L’acquirente finale di un prodotto con marchio contraffatto o comunque di origine e provenienza diversa da quella indicata risponde dell’illecito amministrativo previsto dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, conv. in L. 14 maggio 2005, n. 80, nella versione modificata dalla L. 23 luglio 2009, n. 99, e non di ricettazione (art. 648 cod. pen.) o di acquisto di cose di sospetta provenienza (art. 712 cod. pen.), attesa la prevalenza del primo rispetto ai predetti reati alla luce del rapporto di specialità desumibile, oltre che dall’avvenuta eliminazione della clausola di riserva “salvo che il fatto non costituisca reato”, dalla precisa individuazione del soggetto agente e dell’oggetto della condotta nonchè dalla rinuncia legislativa alla formula “senza averne accertata la legittima provenienza”, il cui venir meno consente di ammettere indifferentemente dolo o colpa»;

Violazione dell’art. 62 n° 4 cod. pen. per non avere la Corte concesso la suddetta attenuante in considerazione della modestia del fatto.

Le ragioni della decisione della Suprema Corte

Per la Suprema Corte, in via preliminare è opportuno ricostruire il contesto normativo alla stregua del quale la presente fattispecie va decisa. Il ricorrente è stato colto nel possesso di vari capi di abbigliamento di note marche che presentavano chiari segni di contraffazione (materiali, etichette, marchi, tessuto, cuciture e serigrafie non conformi agli originali). Il reato, in astratto ipotizzabile, è quindi la ricettazione (art. 648 cod. pen.) che, nella specie, ha come reato presupposto l’art. 473 cod. pen.

Le Sezioni Unite del 2001

Sul punto, infatti, è opportuno rammentare che SSUU 23427/2001 riv 218770 stabilirono che è «indubbio che l’apposizione di un segno contraffatto su un bene (fattispecie delittuosa ai sensi dell’art. 473 c.p.) funga da fonte rispetto alla cosa così realizzata nella quale il segno si fonde: ne deriva che acquisizione del tutto, con la consapevolezza della sua contraffazione, integra una condotta rilevante ai sensi della suddetta previsione. La tesi contraria è priva di aderenza al dato normativo, testualmente e razionalmente inteso; in particolare non può sostenersi che attraverso l’acquisto della cosa avente il segno contraffatto non si arrechi offesa al diritto del titolare dell’esclusiva ed alla correttezza del mercato. Così ragionando si confonde l’oggettività giuridica del reato di ricettazione con quella del delitto presupposto di cui all’art. 473 c.p., mentre in realtà è innegabile che un acquisto del genere realizzi l’offesa tipica del primo: basti osservare che gli acquirenti o più in generale i destinatari ricevono la cosa con un attributo che essa non potrebbe avere, il quale viene valutato dal mercato in termini positivi ed è conseguente alla ingerenza indebita nell’altrui creazione e diritto di esclusiva»: negli stessi termini, Cass. 22693/2008 Rv. 240414; Cass 42934/2012 Rv. 253818.

Il concorso tra ricettazione e commercio di prodotti contraffatti

Le suddette SSUU, poi, affermarono il principio di diritto secondo il quale il reato di ricettazione dei suddetti beni può concorrere con quello di commercio dei medesimi (art. 474 cod. pen.), principio ribadito in modo costante dalla successiva giurisprudenza della Suprema  Corte (ex plurimis Cass. 5260/2014, Rv. 258722).

L’articolo 1/7 del Decreto Legge 14 marzo 2005 n.35

Su questo pacifico quadro normativo – giurisprudenziale, ha, però, successivamente, inciso l’art. 1/7 del Decreto Legge 14 marzo 2005, n. 35 convertito con modificazioni dalla L. 14 maggio 2005, n. 80 e successivamente modificato dall’art. 17 L. n. 99/23 luglio 2009, il quale così dispone: «E’ punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 100 euro fino a 7.000 euro l’acquirente finale che acquista a qualsiasi titolo cose che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per l’entità del prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale. In ogni caso si procede alla confisca amministrativa delle cose di cui al presente comma. Restano ferme le norme di cui al decreto legislativo 9 aprile 2003, n. 70. Salvo che il fatto costituisca reato, Qualora l’acquisto sia effettuato da un operatore commerciale o importatore o da qualunque altro soggetto diverso dall’acquirente finale, la sanzione amministrativa pecuniaria e’ stabilita da un minimo di 20.000 euro fino ad un milione di euro. Le sanzioni sono applicate ai sensi della legge 24 novembre 1981, n. 689, e successive modificazioni. Fermo restando quanto previsto in ordine ai poteri di accertamento degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria dall’articolo 13 della citata legge n. 689 del 1981, all’accertamento delle violazioni provvedono, d’ufficio o su denunzia, gli organi di polizia amministrativa». Secondo i giudici di piazza Cavour, la suddetta norma fece sorgere il problema «se possa configurarsi una responsabilità a titolo di ricettazione per l’acquirente finale di un prodotto con marchio contraffatto o comunque di origine e provenienza diversa da quella indicata».

Le Sezioni Unite del 2012

Della questione furono investite le SSUU le quali, con la sentenza n° 22225/2012, affermarono i seguenti principi di diritto: «L’acquirente finale di un prodotto con marchio contraffatto o comunque di origine e provenienza diversa da quella indicata risponde dell’illecito amministrativo previsto dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, conv. in I. 14 maggio 2005, n. 80, nella versione modificata dalla I. 23 luglio 2009, n. 99, e non di ricettazione (art. 648 cod. pen.) o di acquisto di cose di sospetta provenienza (art. 712 cod. pen.), attesa la prevalenza del primo rispetto ai predetti reati alla luce del rapporto di specialità desumibile, oltre che dall’avvenuta eliminazione della clausola di riserva “salvo che il fatto non costituisca reato”, dalla precisa individuazione del soggetto agente e dell’oggetto della condotta nonchè dalla rinuncia legislativa alla formula “senza averne accertata la legittima provenienza”, il cui venir meno consente di ammettere indifferentemente dolo o colpa»; «Per acquirente finale di un prodotto con marchio contraffatto o comunque di origine e provenienza diversa da quella indicata, di cui al D.L. 14 marzo 2005, n. 35, conv. in L. 14 maggio 2005, n. 80, nella versione modificata dalla I. 23 luglio 2009, n. 99, si intende colui che non partecipa in alcun modo alla catena di produzione o di distribuzione e diffusione dei prodotti contraffatti, ma si limita ad acquistarli per uso personale».

Di conseguenza – proseguono gli Ermellini – a seguito del nuovo contesto normativo, così come interpretato dalle cit. SSUU, si può affermare che:

  • a) è rimasta pur sempre punibile la ricettazione di merce contraffatta ex art. 648 cod. pen. (reato presupposto art. 473 cod. pen.);
  • b) l’area di punibilità penale, però, si è ristretta in quanto rimangono fuori di essa gli acquirenti finali del prodotto contraffatto i quali rispondono solo dell’illecito amministrativo previsto dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, conv. in I. 14 maggio 2005, n. 80, nella versione modificata dalla I. 23 luglio 2009, n. 99;
  • c) la nozione di acquirente finale, peraltro, va intesa in senso restrittivo, nel senso che per tale deve intendersi solo ed esclusivamente colui che acquisti il bene contraffatto per uso strettamente personale, e, quindi, resti estraneo non solo al processo produttivo ma anche a quello diffusivo del prodotto contraffatto.

Cosa rimane fuori dall’area dell’illecito amministrativo

Rimangono, quindi, escluse dall’area dell’illecito amministrativo di cui all’art. 1/7 d.l. cit., e restano all’interno dell’area penale di cui all’art. 648 (reato presupposto art. 473 cod. pen.), tutte le ipotesi in cui chi acquisti un bene contraffatto, non lo acquisti per sè, ma lo destini ad altri. In tali ipotesi, infatti, il soggetto agente risponde del reato di ricettazione perché, con la sua condotta, contribuisce all’ulteriore distribuzione e diffusione della merce contraffatta, essendo irrilevante se l’ulteriore diffusione avvenga a scopo di lucro (come avviene per l’ipotesi di cui all’art. 474 cod. pen.) o a titolo gratuito: in tale senso, ad es., furono ritenuti colpevoli del reato di ricettazione due imputati «trovati in possesso di numerosi capi di abbigliamento ed accessori femminili che, sebbene non fosse provata la destinazione alla vendita, per ammissione degli stessi ricorrenti, erano pacificamente destinati a regalìe in favore di familiari e dipendenti “per compensarli di qualche ora di straordinario”, così da garantirne l’uso ed il consumo a terzi, non rilevando se a titolo gratuito od oneroso»: Cass. II, n. 3000/2016.

L’applicazione dei suddetti principi alla fattispecie concreta

Alla stregua dei suddetti principi di diritto la Suprema Corte osserva che, nel caso di specie, la condanna dell’imputato per il reato di ricettazione, in primo grado, era stata possibile perché il medesimo era stato riconosciuto colpevole anche del reato di cui all’art. 474 cod. pen. che, prevedendo la punibilità per chiunque detenga per la vendita, ponga in vendita o metta altrimenti in circolazione, al fine di trarne profitto, prodotti industriali con marchi o altri segni distintivi, nazionali o esteri, contraffatti o alterati, consente di escludere che il ricorrente potesse essere ritenuto un “acquirente finale” per tale dovendosi intendere, come si è detto, solo colui che acquisti il prodotto contraffatto per sé e sia estraneo non solo al processo produttivo ma anche a quello diffusivo del prodotto contraffatto, la cui destinazione finale deve rimanere circoscritta all’uso e consumo dell’acquirente stesso. Sennonché, la Corte territoriale, ha ritenuto di assolvere l’imputato dal reato di cui all’art. 474 cod. pen. e, sul punto, si era formato ormai giudicato.

E’ chiaro, quindi, che, venuto meno il fatto (rectius: il reato) che consentiva di ritenere che l’imputato non fosse un consumatore finale, la Corte territoriale si sarebbe dovuto porre il problema di verificare a che titolo l’imputato possedeva la merce sequestratagli: domanda, però, alla quale – secondo gli Ermellini – la Corte territoriale non ha dato alcuna risposta, essendosi limitata a rilevare, in capo all’imputato, la sussistenza dell’elemento psicologico della ricettazione, ossia un elemento che è presente anche nel consumatore finale il quale, tranne casi particolari, normalmente, è perfettamente consapevole di acquistare merce contraffatta.

Da qui l’annullamento della sentenza con rinvio. La Corte dovrà accertare a che titolo l’imputato possedesse la merce sequestratagli, attenendosi al seguente

principio di diritto:

«La nozione di acquirente finale di merce contraffatta – che consente di escludere la punibilità ex art. 648 cod. pen. – va intesa in senso restrittivo, nel senso che può essere considerato tale solo ed esclusivamente colui che acquisti il bene contraffatto per uso strettamente personale, e, quindi, resti estraneo non solo al processo produttivo ma anche a quello diffusivo del prodotto contraffatto: di conseguenza, risponde del delitto di ricettazione chi, acquistando un bene contraffatto, contribuisca alla ulteriore distribuzione e diffusione di esso in quanto non lo destina a sè, ma ad altri, essendo irrilevante se l’ulteriore distribuzione avvenga a titolo oneroso o gratuito».

Una breve riflessione.

La sentenza in rassegna ribadisce i principi già espressi dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione nel 2012.

Muovendo dalla altrettanto nota sentenza delle sezioni unite del 2001, la Suprema Corte delinea un breve excursus della normativa e della giurisprudenza in materia evidenziando come la introduzione della lex specialis del 2005 abbia necessariamente determinato la modifica del quadro interpretativo.

Nei fatti, però, non può non evidenziarsi come possa risultare, in alcune ipotesi, difficile “indagare” se l’acquisto sia stato effettuato per uso strettamente personale o no, proprio come è successo nel caso sottoposto all’esame della Corte di legittimità dove l’imputato era stato fermato alla guida di un’autovettura a bordo della quale trasportava in un borsone e in una busta vari capi di abbigliamento (n° 29) di note marche che presentavano chiari segni di contraffazione (materiali, etichette, marchi, tessuto, cuciture e serigrafie non conformi agli originali).

La Corte territoriale, alla quale viene ora demandato il giudizio di rinvio, dovrà motivare se tale detenzione possa essere compatibile con l’uso “strettamente” personale ovvero no.

E le conseguenze non sono di poco conto perché nel primo caso ci troviamo al di fuori dell’area di rilevanza penale; nel secondo caso si.

Certamente, anche la sanzione amministrativa costituisce un valido deterrente all’acquisto di merce contraffatta. Ma il “rimbalzo” tra sanzione penale e sanzione amministrativa potrebbe comportare la eccessiva dilatazione dei tempi di definizione di un giudizio in tutti i casi in cui il confine possa apparire incerto.

avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)

managing partner at clorella (www.clouvell.com)

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