Il ne bis in idem tra sanzioni amministrative e penali

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L’applicazione di una sanzione amministrativa può precludere l’applicazione, per gli stessi fatti, di una sanzione penale e viceversa.

Il ne bis in idem tra sanzioni amministrative e penali.

Il ne bis in idem tra sanzioni amministrative e penali.

Lo ha ribadito la Suprema Corte di Cassazione con ordinanza n.950 del 2015 che ha fatto applicazione dei principi contenuti nella sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sez. II, del 4 marzo 2014 (causa Grande Stevens ed altri e. Italia).

Il divieto del ne bis in idem, a livello interunione, è previsto dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (c.d. “Carta di Nizza”), intitolato «.Diritto di non essere giudicato o punito due volte per lo stesso reato», il quale stabilisce che «Nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge».

L’articolo 4 par. 1 protocollo  7 della CEDU recita pure che “nessuno potrà essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un’infrazione per cui è già stato scagionato o condannato a seguito di una sentenza definitiva conforme alla legge ed alla procedura penale di tale Stato”.

La medesima garanzia in ambito nazionale, è riconosciuta dall’art. 649 c.p.p., rubricato «Divieto di un secondo giudizio», il quale prescrive che «L’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze, salvo quanto disposto dagli arti. 69, comma 2, e 345».

Nel caso “Grande Stevens” appare chiaro l’orientamento dei giudici di Strasburgo di rimproverare agli organi giurisdizionali la mancata disapplicazione di un principio (ne bis in idem) che il legislatore nazionale ha introdotto in materia penale ma non nei rapporti tra sanzione amministrativa di natura penale e sanzione penale.

Quando una sanzione amministrativa può considerarsi di natura “penale”.

Nella sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sez. II, del 4 marzo 2014 la Corte rammenta la sua consolidata giurisprudenza ai sensi della quale, al fine di stabilire la sussistenza di una causa in materia penale, occorre tener presente tre criteri:

  1. la qualificazione (formale o sostanziale) del diritto interno;
  2. la natura dell’infrazione;
  3. la severità della penale.

In altre parole, l’“accusa” penale, nel senso della Convenzione, va intesa come la notifica ufficiale, promanante dall’autorità competente, della contestazione di un’infrazione penale, che può avere ripercussioni importanti sulla situazione dell’accusato (Deweer c. Belgio, §§ 42 e 46, e Eckle c. Germania, § 73). Così, ad esempio, le dichiarazioni rese da una persona durante un controllo stradale, senza essere stata informata del motivo del suo interrogatorio, della natura e della causa dei sospetti nei suoi confronti, né della possibilità che le sue dichiarazioni siano utilizzate contro di lei, possono avere avuto “ripercussioni importanti” sulla sua situazione, nonostante l’assenza di una formale imputazione nei suoi confronti (Aleksandr Zaichenko c. Russia, § 43).

Per la Corte il criterio della natura dell’infrazione è senza dubbio il più significativo (Jussila c. Finlandia [GC], § 38); diversi sono i fattori di cui il giudice di Strasburgo si avvale per la individuazione della natura della infrazione, tra loro spiccano senz’altro:

  • l’accertamento della funzione repressiva/dissuasiva della norma (Öztürk c. Germania, § 53; Bendenoun c. Francia, § 47);
  • la verifica della classificazione di procedimenti analoghi negli altri Paesi membri del Consiglio d’Europa (Öztürk c. Germania, § 53);
  • l’accertamento della provenienza dell’azione, se cioè sia stata posta in essere da una pubblica autorità in virtù di poteri legalmente riconosciuti e se la condanna dipenda dalla constatazione di una responsabilità (Benham c. Regno Unito [GC], § 56);
  • la verifica della portata della norma, della sua generalità (Bendenoun c. Francia, § 47) (v. I principi del diritto e del processo penale nella giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, – Madrid 13 – 15 ottobre 2011  – a cura di B. Randazzo).

A dimostrazione di ciò, anche nei procedimenti disciplinari è stato rinvenuta la nozione di “accusa penale” in ragione delle conseguenze scaturenti dalla sanzione stessa (perdita del posto di lavoro).

Alla luce di quanto sopra, affinché si possa parlare di «accusa in materia penale» ai sensi dell’art. 6 § 1, è sufficiente che il reato in causa sia di natura «penale» rispetto alla Convenzione, o abbia esposto l’interessato a una sanzione che, per natura e livello di gravità, rientri in linea generale nell’ambito della «materia penale». Ciò non impedisce di adottare un approccio cumulativo se l’analisi separata di ogni criterio non permette di arrivare ad una conclusione chiara in merito alla sussistenza di una «accusa in materia penale» (Jussila c. Finlandia [GC], n. 73053/01, §§ 30 e 31, CEDU 2006-XIII, e Zaicevs c. Lettonia, n. 65022/01, § 31, CEDU 2007-LX (estratti)”.

Per valutare la sussistenza del ne bis in idem tra sanzioni penali e sanzioni amministrative occorre fare dunque riferimento non al fatto in senso giuridico, ma al fatto in senso naturalistico.

In particolare, la CEDU ha rilevato che al fine di stabilire se i fatti su cui si è formato il giudicato sono da considerarsi i medesimi per i quali si procede in altro giudizio, occorre aver riguardo non al fatto inteso in senso giuridico, ossia alla fattispecie astratta, ma al fatto in senso storico-naturalistico, ossia alla fattispecie concreta oggetto dei due procedimenti, a prescindere dagli elementi costitutivi rispettivamente previsti dai menzionati articoli

In conclusione, la pronuncia della CEDU citata., così come avallata dalla sentenza della Suprema Corte di cassazione pure citata, afferma  il principio del ne bis in idem alla luce dell’art. 4, par. 1, del Protocollo n. 7 della CEDU, il quale vieta la duplicazione di giudizi penali e amministrativi e, conseguentemente, la doppia applicazione di sanzioni penali nei confronti dei medesimi soggetti e per i medesimi fatti oggetto di sentenza passata in giudicato.

Una breve riflessione

Le due decisioni passate sommariamente in rassegna rappresentano certamente una rivoluzione copernicana nel panorama del diritto europeo ed interno italiano.

Interessante e coraggioso è l’approccio interpretativo che, andando oltre il significato letterale di “accusa penale” come storicamente intesa, giunge alla conclusione che ad essa debba equipararsi anche qualsiasi altra “condanna” che, pur non rientrando nella materia penale, debba intendersi equiparata ad essa in forza di determinati elementi sintomatici, tra cui il disvalore e la severità della sanzione.

Dunque, la CEDU e, di conseguenza, la Suprema Corte di Cassazione, delineano quelli che sono i binari entro i quali una sanzione, al di là del nomen juris riconosciuto dall’ordinamento, dovrà considerarsi di “natura penale” ai fini dell’ordinamento dell’Unione.

Pervero, gli organi di giustizia europea, come sopra abbiamo visto, avevano già iniziato a fare breccia in tale direzione anche con riguardo alla materia del lavoro, e segnatamente a quella dei licenziamenti, avendo equiparato la sanzione espulsiva alla sanzione penale, con ogni conseguenza in ordine all’applicazione dei relativi principi comunitari in materia penale a favore dei soggetti illegittimamente licenziati.

Ed allora non v’è dubbio che alla luce dell’interpretazione fornita dagli Organi di giustizia europea non ci si debba fermare al nomen juris, ma occorre verificare i ridetti elementi sintomatici per concludere (o escludere) che una determinata sanzione, pur formalmente non penale, possa considerarsi penale ai fini della CEDU e del diritto dell’Unione.

In definitiva, la previsione di un doppio binario “puro” è stato stigmatizzato dalla giustizia europea in quanto, attraverso esso, viene a determinarsi una compressione, oltremodo ingiusta ed eccessiva, dei diritti dell’accusato, traducendosi, appunto, in una duplicazione del carico sanzionatorio afferente uno stesso fatto inteso in senso naturalistico.

Rimangono comunque molte zone d’ombra. Difatti, sarà difficile ipotizzare, per l’avvenire, una sorta di automatismo nell’applicazione del principio del ne bis in idem tra le sanzioni amministrative (sia pur di rilievo “penale”) e le sanzioni penali vere e proprie.

E difatti, la Suprema Corte di Cassazione, con la ordinanza citata (950 del 2015), ha rimesso gli atti alla Corte costituzionale al fine di vagliare la compatibilità del principio espresso dalla CEDU con l’ipotesi in cui una sentenza penale di condanna ad una pena interamente condonata (e quindi priva di effettiva efficacia deterrente) possa costituire una preclusione all’applicazione di una sanzione amministrativa (per gli stessi fatti dal punto di vista naturalistico) però di importo molto elevato (cinque milioni di euro).

Si apre, dunque, la strada per l’affermazione di principi cd. intermedi tra il doppio binario “puro” ed il ne bis in idem: il principio del “ne bis in idem attenuato” ed il principio del “doppio binario attenuato”.

Vedremo cosa deciderà la Corte delle leggi sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dai giudici di piazza Cavour con la ordinanza 950 del 2015.

avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)

managing partner at clouvell (www.clouvell.com)

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