Rilevabilità in appello della sanatoria fiscale: le sezioni unite dirimono il contrasto

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«In tema di processo tributario e con riferimento alla definizione degli avvisi di accertamento, ai sensi dell’art. 15 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (legge finanziaria 2003), l’estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere, ai sensi dell’art. 46 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, relativa alla sanatoria fiscale intervenuta nel corso del giudizio dinanzi alla commissione tributaria provinciale, può essere fatta valere per la prima volta anche in grado di appello, atteso che gli effetti del condono, per il rilievo pubblicistico dell’elisione dell’originario rapporto sostanziale e processuale del contribuente col fisco, non rientra tra le nuove eccezioni in senso tecnico, precluse dell’art. 57 del citato decreto legislativo, ma tra le eccezioni improprie che il giudice stesso è tenuto a rilevare d’ufficio se risultanti dagli atti di causa anche a seguito della produzione di nuovi documenti effettuata in appello in forza dell’art. 58 del ridetto decreto legislativo».

Lo ha affermato la Suprema Corte di Cassazione – sezioni unite civili – con sentenza n. 1518 del 27 gennaio 2016

Rilevabilità in appello della sanatoria fiscale: le sezioni unite dirimono il contrasto

Rilevabilità in appello della sanatoria fiscale: le sezioni unite dirimono il contrasto

Il caso

Con avviso di rettifica notificato il 16 dicembre 2002 il fisco recuperava nei confronti di un contribuente l’IVA detratta nell’anno d’imposta 1997 su fatture emesse per operazioni ritenute inesistenti. Il 14 febbraio 2003 la società ricorreva dinanzi alla Commissione tributaria provinciale che rigettava la domanda di annullamento dell’atto impositivo.

La sentenza della Commissione tributaria provinciale

Il primo giudice osservava che la pretesa erariale era fondata sulle risultanze di un processo verbale di constatazione della Guardia di finanza, notificato alla parte contribuente, la quale non aveva assolto l’onere di provare l’effettività delle operazioni che le erano state apparentemente fatturate da società fallite anteriormente alla datazione delle fatture contestate.

L’appello

Per la riforma di tale decisione il contribuente ha proposto appello eccependo la cessazione della materia del contendere, a suo dire verificatasi nel corso del giudizio di primo grado per effetto del condono previsto dall’art. 15 della legge finanziaria 2003 (n. 289/2002), giusta domanda avanzata e accompagnata dal «versamento dei relativi importi». Ha denunciato, inoltre, carenze motivazionali della sentenza della Commissione tributaria provinciale. Il fisco, nel resistere al gravame, ha eccepito tra l’altro l’inefficacia della sanatoria, operando la preclusione verso la società perché il suo amministratore era stato sottoposto a procedimento penale, pendente in appello, per uno dei reati previsti dal D.Lgs. n. 74/2000. La controparte ha replicato lamentando l’omessa comunicazione di un formale provvedimento di diniego del condono.

La sentenza della Commissione tributaria regionale

La Commissione tributaria regionale della Calabria ha rigettato l’appello. Ha motivato la decisione affermando che l’eccezione di estinzione del processo, per intervenuta definizione della vertenza ai sensi dell’art. 15 cit., sia stata tardivamente proposta solo in appello, in violazione del divieto di nuove domande sancito dall’art. 57 proc. trib.. Ha osservato, inoltre, che la pretesa erariale, comprovata dalle risultanze del processo verbale di constatazione del 10 maggio 2001, portato a conoscenza della società contribuente, non sia stata contrastata da diverse allegazioni dimostrative della «regolarità delle operazioni ritenute dall’ufficio inesistenti». Da qui il ricorso per cassazione.

I motivi del ricorso per cassazione

In primo luogo la ricorrente ha denunciato violazione e/o falsa applicazione dell’art. 57 proc. trib. in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ.. Ha censurato la sentenza d’appello laddove ha ritenuto definitivamente preclusa, perché nuova, l’introduzione nel giudizio d’appello della questione circa la sanatoria della pendenza fiscale per effetto della procedura di condono di cui all’art. 15 cit. definita nelle more del giudizio di primo grado. In proposito ha richiamato la giurisprudenza di legittimità che dall’effetto legale di estinzione sia della pretesa erariale sia del giudizio che la riguarda ha fatto derivare la conseguenza che la definizione condonistica fosse soggetta ad accertamento officioso e, dunque, rilevabile anche d’ufficio in grado di appello.

In secondo luogo, la ricorrente ha denunciato violazione e/o falsa applicazione degli artt. 15 e 16 della legge n. 289/2002, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ.., e dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, n.4 e n.5, cod. proc. civ.. Premesso che il fisco aveva trattenuto le somme versate per la sanatoria senza formulare alcun rilievo circa la regolarità della procedura, ha osservato che solo dalle difese spiegate in appello dall’Agenzia delle entrate ha appreso che l’amministrazione le ha negato l’accesso al condono. Sicché solo allora ha potuto contestare nel giudizio in corso la legittimità del diniego con rilievo però trascurato dal giudice d’appello.

In terzo luogo, la ricorrente ha denunciato «carenza di motivazione» – ai sensi dell’art. 360, n.3 e n.4, cod. proc. civ., in relazione all’art. 36 proc. trib. – e violazione o falsa applicazione dell’art. 56 del decreto IVA – in relazione all’art. 360, n.3, cod. proc. civ. – laddove la sentenza d’appello sarebbe fondata su un’apodittica adesione a quanto accertato dalla Guardia di finanza, lamentando, in merito, di non essere neppure a conoscenza di alcuni processi verbali neanche redatti nei propri confronti.

La rimessione alle sezioni unite.

All’esito della pubblica udienza di discussione del 24 novembre 2014, con ordinanza interlocutoria n.27290 del 23 dicembre 2014, la quinta sezione civile ha rimesso gli atti al Primo Presidente, per l’assegnazione del ricorso alle sezioni unite. Ha rilevato, infatti, che, in relazione alla domanda di estinzione della lite per intervenuta definizione nelle diverse forme previste dalla legge n. 289/2002, proposta per la prima volta nel giudizio di appello, si riscontrava un evidente contrasto nella giurisprudenza di legittimità.

Il contrasto in seno alle sezioni semplici

Secondo una prima tesi, infatti, costituiva domanda nuova, ai sensi dell’art. 57 proc. trib., la pretesa fondata sulla presentazione della domanda di condono, fatta valere per la prima volta nel giudizio d’appello, nonostante tale fatto costitutivo del diritto si fosse verificato in pendenza del giudizio di primo grado, integrando detta ipotesi mutamento della causa petendi, nonché del petitum, per avere la contribuente chiesto la cessazione della materia del contendere, in luogo dell’iniziale annullamento dell’atto impositivo impugnato (Cass. nn. 18337 del 2007 e 13488 del 2009).

In base ad una diversa impostazione, invece, l’esercizio della facoltà di ottenere la chiusura delle liti fiscali pendenti, pagando una somma correlata al valore della causa, produrrebbe effetto estintivo del giudizio che opererebbe persino per le domande giudiziali di rimborso.

Ne conseguirebbe che l’intervenuta proposizione della relativa istanza, palesandosi come questione officiosa, connessa ai riflessi di ordine pubblico nascenti dall’elisione della pretesa impositiva realizzata in virtù dell’adesione al condono, dovrebbe essere rilevata d’ufficio dal giudice, senza una specifica eccezione ad opera della parte interessata a farla valere (Cass. nn. 25239 del 2007, 17142 del 2008, 3841 del 2012).

Le ragioni della decisione della Suprema Corte a sezioni unite

Secondo i giudici di piazza Cavour, il punto di partenza di ogni riflessione sugli effetti processuali del condono fiscale non può che prendere le mosse dalle prescrizioni salienti dell’art. 46 proc. trib. che, sotto la rubrica «estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere», stabilisce che «il giudizio si estingue […] nei casi di definizione delle pendenze tributarie previsti dalla legge e in ogni altro caso di cessazione della materia del contendere» e che «la cessazione della materia del contendere è dichiarata […] con decreto del presidente o con sentenza della commissione». La disposizione trova applicazione anche nel giudizio dinanzi alle Commissioni tributarie regionali a mente dell’art. 61 proc. trib., laddove stabilisce che «nel procedimento d’appello si osservano in quanto applicabili le norme dettate per il procedimento di primo grado, se non sono incompatibili con le disposizioni della presente sezione», ovverosia la sezione II delle disposizioni sul processo tributario (D.Lgs. n.546/1992) che non contiene alcuna norma sull’estinzione del processo.

Gli artt. 45 e 46 proc. trib.

L’art. 46 proc. trib. non fissa termini per far valere nel giudizio di merito la «definizione delle pendenze tributarie» e la conseguente «estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere». Diversamente, l’art. 45 proc. trib. prevede espressamente che «l’estinzione del processo per inattività delle parti è rilevata anche d’ufficio solo nel grado di giudizio in cui si verifica»; si tratta di norma che – a detta dei giudici Supremi – si differenzia dalla disciplina dell’art. 306 cod. proc. civ. sia nel testo del 1950 – «l’estinzione opera di diritto, ma deve esser eccepita dalla parte interessata prima di ogni altra difesa» – sia nel testo del 2009 – «l’estinzione opera di diritto ed è dichiarata anche d’ufficio» -. Il che costituisce riprova del fatto che tutta la materia dell’estinzione del processo tributario resta regolata dalla specifica sezione V del D.Lgs. n. 546/1992, artt. 44-45- 46, e non dalla sezione III, capo IV, libro II, del codice di rito civile, operando il limite interno [«per quanto da esse non disposto»] al rinvio generale di cui al comma 2 dell’art. 2.

L’art. 21 DPR 636/1972 e l’art. 23 legge TAR

Per i giudici di legittimità, la previsione, sul punto, del processo tributario, invece, è stata in parte preceduta dall’art. 21 della vecchia disciplina del contenzioso fiscale (d.P.R. n. 636/1972, art. 21), laddove si afferma che la rinnovazione dell’atto impugnato «fa cessare la materia del contendere», e soprattutto dall’art. 23 della legge sui TAR, laddove si afferma che «se […] la amministrazione annulla o riforma l’atto impugnato in modo conforme alla istanza del ricorrente, il tribunale amministrativo regionale dà atto della cessata materia del contendere e provvede sulle spese», con previsione ora rifluita nell’art. 35 cod. proc. amm. (D.Lgs. n. 104/2010), laddove si afferma che «il giudice dichiara, anche d’ufficio, il ricorso […] improcedibile quando nel corso del giudizio sopravviene il difetto di interesse delle parti alla decisione, o non sia stato integrato il contraddittorio nel termine assegnato, ovvero sopravvengono altre ragioni ostative ad una pronuncia sul merito». La separata previsione della cessazione della materia del contendere nei testi legislativi sui contenziosi in materia amministrativa e fiscale marcherebbe l’autonomia dei relativi procedimenti e in particolare del processo tributario rispetto al giudizio ordinario disciplinato dal codice di rito (Cass., sez. un., n. 1048 del 2000, in motivazione).

Le sezioni unite, approfondendo il tema della cessazione della materia del contendere con estinzione del processo «nei casi di definizione delle pendenze tributarie previsti dalla legge», osservani che l’art. 46 proc. trib. è stato preceduto e seguito da variegate previsioni di sanatorie fiscali con effetto di «cessata materia del contendere» (D.L. n.90/1990, art.5) e di estinzione di «controversie»  (D.L. n.429/1982, artt. 16-26-31-32), «processi» (D.L. n.408/1990, art. 15), «procedimenti» (D.L. n.79/1997, art. 9-bis), «giudizi» (D.L. n.564/1994, art. 2-quinquies; Legge n.413/1991, art. 34; d.P.R. n.637/1972, art. 27; D.L. n.40/2010, art.3, co. 2-bis).

La nozione di “definizione delle pendenze tributarie”.

In conseguenza di questa stratificazione terminologica deriva l’individuazione in via generale della «definizione delle pendenze tributarie» come fattispecie legale tipica che conduce all’estinzione del processo nell’ambito dell’art. 46 proc. trib..

Le varie forme di sanatoria o condono fiscale

Le sezioni unite si soffermano anche sulle forme di sanatoria o condono fiscale, da considerarsi molteplici anche nella legge finanziaria 2003, al cui interno è collocato l’art. 15 in esame, e ritornano da ultimo nel D.L. n.98/2011 (art. 39, co. 12).

Più in dettaglio il condono premiale ex art. 15 prevede una definizione, da effettuarsi entro il 16 marzo 2003, di liti potenziali su avvisi di accertamento per i quali alla data di entrata in vigore della legge di condono (cioè la finanziaria 2003) non sono ancora spirati i termini per la presentazione del ricorso. La definizione avviene mediante il pagamento del 30, 32 e 35 per cento delle maggiori imposte accertate se rispettivamente non superiori a 15 mila o a 50 mila euro ovvero superiori a 50 mila nell’ultima ipotesi. Si tratta – proseguono le sezioni unite – di percentuali non dissimili da quella del 30 per cento dell’importo dell’imposta netta che ha formato oggetto di contestazione in primo grado prevista per la chiusura ex art.16 delle liti fiscali pendenti alla data di entrata in vigore della legge di condono (Cass., sez. un., n. 3676 del 2010).

Per le sezioni unite, il tratto comune delle varie formule condonistiche (es. artt. 7, 8, 9, 9-bis, 12 della legge finanziaria 2003) è costituito dalla facoltà concessa al contribuente di regolarizzare la sua posizione fiscale rimediando alle eventuali inadempienze commesse o in corso di accertamento, amministrativo o giudiziario, mediante il versamento di una somma di danaro fissa o proporzionale all’entità delle violazioni tributarie che s’intendono sanare, anche «al fine di ridurre il numero delle pendenze giudiziarie e quindi concentrare gli impegni amministrativi e le risorse sulla proficua e spedita gestione» del fisco (v. testualmente D.L. n.98/2011, art. 39, co. 12).

Gli effetti del condono premiale ex art.15

Per gli Ermellini, l’effetto normale, prendendo ad esempio proprio il modello del condono premiale ex art. 15, è dunque quello di elidere la res litigiosa mediante un pagamento in misura predefinita e di elidere le conseguenze sanzionatorie amministrative e penali, oltre che, sempre in via esemplificativa, di consentire persino rettifiche di bilancio e di scritture contabili nei peculiari casi di cui all’art. 14.

Dunque non si tratterebbe di un c.d. regime fiscale sostitutivo, perché opera a posteriori e non a priori, né di una transazione (pure talvolta ritenuta in giurisprudenza, v. Cass., sez. un., n.14828 del 2008; Cass. n.11427 del 2015) o di una novazione, perché manca l’origine bilaterale e volontaria tipica della materia contrattuale.

Il condono fiscale secondo la Corte costituzionale

Il condono fiscale, secondo C. cost. n.172 del 1986, ha natura meramente procedurale e più esattamente, secondo C. cost. n.321 del 1995, costituisce una forma atipica di definizione del rapporto tributario, che prescinde da un’analisi delle varie componenti ed esaurisce il rapporto stesso mediante definizione forfettaria e immediata, nella prospettiva di recuperare risorse finanziarie e ridurre il contenzioso e non in quella dell’accertamento dell’imponibile.

L’istituto, secondo C. cost. n.109 del 2009, è essenzialmente diretto a soddisfare l’interesse costituzionale all’acquisizione delle disponibilità finanziarie necessarie a sostenere le pubbliche spese, incentivando la definizione semplificata e spedita delle pendenze mediante il parziale pagamento del debito tributario e non è di per sé irragionevole che la normativa persegua i soli contingenti e concorrenti obiettivi di ridurre il contenzioso – anche potenziale – con i contribuenti e conseguire un immediato introito finanziario, benché in misura ridotta rispetto a quello astrattamente ricavabile (conf. C. cost. nn. 402 del 2005, 550 del 2000, 361 del 1992, 33 del 1981). Più in generale, C. cost. n.416 del 2000 afferma che è coessenziale alla tecnica del condono (previdenziale o fiscale) l’incentivazione dei pagamenti non ancora effettuati, mediante la concessione di benefici (di solito, la riduzione della misura dovuta). Il condono quindi si limita, in via eccezionale, per ragioni connesse ad esigenze della finanza pubblica, a collegare il pieno effetto liberatorio dell’obbligazione all’adempimento anche solo parziale (conf. C. cost. n.340 del 2005).

La funzione deflattiva del condono, laddove consente la definizione di una lite in corso o potenziale garantendo la riscossione di un credito erariale incerto, è ripresa in peculiari contesti dalla giurisprudenza interna (Cass., sez. 5, n.5072 del 2015 e, sez. un., n. 3676 del 2010, rispettivamente sugli artt. 15 e 16 L. n.289/2002) ed eurounitaria (C. giust., 29/03/2012, C-417/10, sull’art.3, co.2- bis, D.L. n. 40/2010).

Il condono fiscale nella elaborazione dottrinale

Le sezioni unite osservano ancora che, secondo la dottrina, in tesi generale, ogni imposta altro non è che un’obbligazione di riparto e che ogni legge d’imposta dovrebbe racchiudere i criteri soggettivi e oggettivi per il riparto, nel senso che dovrebbe fissare il catalogo dei criteri e dei principi in base ai quali di dovrebbe distribuire un determinato ammontare di spesa pubblica nei confronti di una determinata platea di soggetti passivi. Invece, la legge di condono deroga alla legge d’imposta e stabilisce, per i fruitori, un sistema d’imposizione, cioè di riparto della spesa pubblica, diversificato ma legittimato da quelle esigenze ritenute meritevoli di tutela dalla Corte costituzionale nelle decisioni sopra richiamate. Quindi la sanatoria derivante dal condono è l’effetto potestativo riconosciuto dalla legge all’adesione oblativa (v. testualmente, D.L. n.79/1997, art. 9-bis) ivi prevista senza che il fisco possa esercitare alcun potere decisorio.

Il condono tributario opera secondo meccanismi di diritto pubblico.

Ne deriva che, per le sezioni unite, l’istituto del condono tributario opera secondo meccanismi di diritto pubblico diversi dalla modificazione negoziata dell’obbligazione per via di novazione, transazione o conciliazione.

Le sanatorie fiscali pongono il contribuente di fronte ad un’autonoma e libera scelta fra trattamenti distinti che non si intersecano fra loro, ovverosia coltivare la controversia verso il fisco nei modi ordinari, conseguendo – se del caso – anche rimborsi di somme indebitamente pagate o deduzioni/detrazioni comunque spettanti, oppure corrispondere quanto dovuto per la definizione condonistica, ma senza la possibilità di riflessi o interferenze con quanto dovuto sulla linea del procedimento fiscale ordinario (tra le tante Cass. n.16034 del 2015).

Per i giudici di piazza Cavour ci si muove lungo i binari di fattispecie legali vincolate che fuoriescono dallo schema del libero scambio di consensi tra le parti. Infatti, secondo la Corte di Strasburgo, «la materia fiscale ricade nel nocciolo duro delle prerogative del potere di imperio, poiché predomina la natura pubblica del rapporto tra contribuente e collettività» (così la CEDU in causa Ferrazzini). Il che vale anche nel momento in cui lo Stato introduce modalità di definizione del rapporto mediante adesione a possibilità di condono.

Di conseguenza, se la portata e gli effetti delle leggi di condono e i modi di accesso alla sanatoria sono eminentemente giuspubblicistici, in tale prospettiva va valutato l’ingresso delle relative questioni nel giudizio tributario di appello.

Il combinato disposto degli artt. 46 e 61 proc. trib. non fissa alcun termine, esplicito o implicito, per far valere la «definizione delle pendenze tributarie» e la conseguente «estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere». Inoltre in base all’art. 45 proc. trib., laddove prevede espressamente che «l’estinzione del processo per inattività delle parti è rilevata anche d’ufficio solo nel grado di giudizio in cui si verifica», non è predicabile l’esistenza di un termine di decadenza per i «casi di definizione delle pendenze tributarie previsti dalla legge».

Per le sezioni unite, la mancata previsione non può ritenersi frutto di mera dimenticanza del legislatore, superabile con il ricorso all’analogia, attesa la diversità strutturale e funzionale degli istituti dell’inattività delle parti e della cessazione della materia del contendere.

Né v’è, difatti – proseguono i giudici di piazza Cavour – alcuna decadenza rilevabile dal combinato disposto degli artt. 57-58 proc. trib.. Infatti, riguardo al gravame avverso le decisioni della commissione tributaria provinciale, l’art. 58, co.2, fa salva la facoltà delle parti di produrre in appello nuovi documenti indipendentemente dalla impossibilità dell’interessato di produrli in prima istanza per causa a lui non imputabile. Quest’ultimo requisito è richiesto dall’art. 345 , ult. co ., cod. proc. civ., (come sostituito dalla Legge n. 535/1990, art. 52), ma non dal citato art. 58 (Cass. nn. 2027 del 2003 e 30724 del 2011).

Il principio di specialità della norma processuale tributaria

Per il principio di specialità espresso dall’art. 1, co.3, proc. trib. prevale la norma processuale tributaria e non trova applicazione la preclusione alla produzione documentale, potendo le parti provvedervi persino per documenti preesistenti al giudizio svoltosi in primo grado (Cass. n.7714 del 2013).

Il divieto di introdurre eccezioni (in senso stretto) e domande nuove

La possibilità d’integrazione del materiale probatorio in appello – secondo le sezioni unite – non costituisce tuttavia veicolo per introdurre in secondo grado eccezioni o domande nuove, ostandovi il divieto espresso contenuto nel ridetto art. 57 laddove si fissa il precetto che «non possono proporsi nuove eccezioni che non siano rilevabili anche d’ufficio». Ciò sarebbe diretta conseguenza del meccanismo d’instaurazione del giudizio tributario di tipo impugnatorio, cioè circoscritto alla verifica della legittimità della pretesa avanzata con l’atto impugnato, alla stregua dei presupposti di fatto e di diritto in esso indicati, e avente oggetto delimitato dalle contestazioni mosse dal contribuente con i motivi dedotti nel ricorso introduttivo in primo grado. Però tale divieto concerne esclusivamente le eccezioni in senso stretto, e non anche le eccezioni improprie o le mere difese, che sono sempre deducibili (Cass. n. 25756 del 2014). Dunque la preclusione «si riferisce esclusivamente alle eccezioni in senso stretto o proprio, rappresentate da quelle ragioni delle parti sulle quali il giudice non può esprimersi se ne manchi l’allegazione ad opera delle stesse, con la richiesta di pronunciarsi al riguardo» (Cass. n.6918 del 2013). Eccezioni di tale genere sono «le eccezioni in senso tecnico, ossia lo strumento processuale con cui il contribuente, in qualità di convenuto in senso sostanziale, fa valere un fatto giuridico avente efficacia modificativa o estintiva della pretesa fiscale» (Cass. 24902 del 2013).

L’orientamento “negativo”.

Secondo la sentenza della quinta sezione n. 17645 del 2014 sarebbe un’eccezione in senso tecnico quella con la quale il contribuente rappresenti per la prima volta in appello l’anteriore fatto estintivo dell’obbligazione tributaria oggetto dell’impugnato atto impositivo, consistente nell’intervenuta definizione nelle more del carico fiscale pendente a mente della legge di condono introducendosi solo in quella sede l’eccezione nuova intesa a neutralizzare in limine la pretesa del fisco.

Tale decisione non si discosta dagli esiti ai quali già approda la sentenza n. 18337 del 2007 laddove si legge: «il fatto nuovo, costituito dalla presentazione della domanda di condono, avrebbe dovuto essere fatto valere nel giudizio di primo grado, in pendenza del quale esso si è verificato […] Infatti, si è fatto valere per la prima volta in appello un fatto costitutivo del diritto, per il quale si è agito in giudizio, nuovo e diverso da quello addotto in primo grado. In conseguenza del mutamento della causa petendi (presentazione della domanda di condono come fatto costitutivo della pretesa;…), s’è mutato anche il petitum (la pretesa di ottenere la cessazione della materia del contendere in luogo dell’iniziale pretesa di ottenere l’annullamento dell’atto impositivo impugnato)».

Per le sezioni unite, la pronunzia del 2007 richiama il precedente “aspecifico” della terza sezione n. 10128 del 2003 sul mutamento della dinamica di un sinistro stradale e, dunque, su tema totalmente estraneo rispetto a quello delle sanatorie fiscali ed è pedissequamente seguita dalle sentenze della quinta sezione civile n. 13488 del 2009 e n. 26480 del 2010.

L’opposto orientamento

L’orientamento che nega la possibilità di far valere la causa estintiva relativa all’intervenuto condono per la prima volta in grado di appello è contraddetto da altro e assai più vasto orientamento espresso dai collegi sia della quinta che della sesta sezione. Esso esordisce con la sentenza n. 14007 del 2007 laddove si afferma che «in ordine alla sussistenza di una istanza di definizione della lite pendente, il giudice tributario ha il potere-dovere di compiere tale verifica, anche in via ufficiosa» e che, «trattandosi di pronuncia che estingue la lite e si riflette sulla stessa esistenza del processo, il giudice tributario è tenuto a esaminare la legittima applicazione del condono».

Analogamente la sentenza n. 25239 del 2007 approfondisce e ribadisce: «Quanto al profilo della tardività dell’eccezione processuale riguardante l’adesione del contribuente al condono di cui alla L. n. 289 del 2002 […], come questa Corte ha avuto già modo di precisare, le questioni relative all’applicazione del condono, pur non risolvendosi interamente nei problemi processuali, partecipano anche di tale natura e sono, perciò, rilevabili d’ufficio, senza che occorra una specifica proposizione ad opera della parte interessata a farle valere; […] a tale proposito, la sentenza di questa Corte n. 15995 del 2000 ha già avuto modo di chiarire che la facoltà di ottenere la chiusura delle liti fiscali pendenti, pagando una somma correlata al valore della causa, produce un effetto estintivo» della pretesa tributaria azionata, «sicché si realizza, come riflesso processuale, l’estinzione del giudizio, anche se esso non si esaurisce in un evento del processo, perché configura vicenda più complessa che elide la pretesa impositiva unitamente all’impugnazione del contribuente, nel concorso di condizioni ed adempimenti prestabiliti […] tale principio, in sostanza, realizza un effetto latamente estintivo delle opposte pretese e, quindi, di riflesso, anche del processo, palesandosi come questione ufficiosa, di ordine pubblico, che s’impone al giudice, ove rilevata o rilevabile in via ufficiosa […] il suo operare officioso […] si connette ai riflessi di ordine pubblico nascenti dall’elisione della pretesa impositiva, realizzata in virtù dall’adesione al condono».

Sulla stessa linea la sentenza n. 4398 del 2008 precisa che il giudice tributario d’appello, in questi casi, ha l’obbligo di dichiarare estinto il giudizio anche se il gravame sia viziato da cause di inammissibilità od improcedibilità (conf. sent. nn. 17142 del 2008 e 11501 del 2009).

Sostanzialmente conforme è anche l’ordinanza n. 3841 del 2012, seguita dell’ordinanza n. 4938 del 2012 che afferma analoghi principi anche in relazione alla deduzione nel giudizio di rinvio «giacché dalla natura di quel giudizio come processo chiuso non deriva alcun effetto sul profilo che qui interessa, il quale attiene alla conseguenza in diritto del fatto – pacifico – del fruito condono, non immune da riflessi di ordine pubblicistico a proposito dell’intangibilità dei periodi d’imposta cui si riferisce, alla precipua funzione di liberare risorse da impiegare in altre distinte attività di rango equivalente».

Non dissimile – proseguono i giudici di piazza Cavour – è pure la sentenza n. 8118 del 2012 laddove si osserva che «l’insorgenza della succitata fattispecie estintiva della pretesa fiscale per intervenuto condono può essere, inoltre, rilevata d’ufficio […] anche nel giudizio di legittimità (… essendo possibile la produzione di documenti relativi alla cessazione della materia del contendere ex art. 372 c.p.c., concernendo gli stessi l’ammissibilità del ricorso…). E ciò, in quanto la cessazione della materia del contendere per intervenuta transazione – in tale figura va certamente inquadrata la definizione automatica della lite per condono […] – non costituisce oggetto di eccezione in senso proprio ed è, pertanto, sempre rilevabile d’ufficio dal giudice, non essendo soggetta alle preclusioni previste per siffatto tipo di eccezioni».

Le sezioni unite certificano tale ultimo orientamento

Per le sezioni unite, l’orientamento che conduce alla possibilità di far valere la causa estintiva del processo relativa al condono, intervenuto in corso di causa, anche per la prima volta in grado di appello può dirsi ampiamente diffusa nel diritto vivente e va certificato non essendovi ragioni logico-giuridiche in senso contrario.

Per i giudici di legittimità è tralatizio, nel processo civile ordinario, il principio di diritto secondo cui la cessazione della materia del contendere, anche per intervenuta transazione, non costituisce oggetto di eccezione «in senso proprio o in senso stretto» ed è, pertanto, rilevabile di ufficio dal giudice e non è soggetta alle preclusioni previste per detto tipo di eccezioni (Cass. n. 4883 del 2006). Essa introduce una questione processuale idonea a chiudere la lite sulla base di un fatto che non attiene al merito della controversia, e, dunque, non soggiace alle regole ed alle preclusioni che governano, nei vari gradi di giudizio, l’allegazione delle circostanze che ad esso si riferiscono (Cass. n. 18195 del 2012).

Riguardo alle eccezioni in generale, le sezioni unite nel 2001 affermano che nel nostro ordinamento vige il principio della rilevabilità di ufficio delle eccezioni, derivando invece la necessità dell’istanza di parte solo dall’esistenza di una eventuale specifica previsione normativa (Cass., sez. un., n. 226 del 2001). Indi nel 2005 stabiliscono che l’eccezione d’interruzione della prescrizione integra un’eccezione in senso lato e non in senso stretto e, pertanto, «può essere rilevata d’ufficio dal giudice in qualunque stato e grado del processo sulla base di prove ritualmente acquisite agli atti» (Cass., sez. un., n. 15661 del 2005).

Proseguendo nel catalogo esemplificativo, le sezioni unite nel 2012 ritengono che il giudice ha il potere-dovere di rilevare dai fatti allegati e provati, o comunque emergenti ex actis, una volta provocato il contraddittorio sulla questione, ogni forma di nullità del contratto, purché non soggetta a regime speciale, escluse, quindi, le nullità di protezione, il cui rilievo è espressamente rimesso alla volontà della parte protetta (Cass., sez. un., n.14828 del 2012).

Indi nel 2013 contemplano tra le eccezioni in senso lato, oltre l’accettazione beneficiata oggetto specifico di quella pronunzia, anche «il pagamento del debito azionato» (Cass., sez. un., n. 10531 del 2013, § 7.1), e precisano che la rilevabilità d’ufficio delle eccezioni di tal genere, con la loro ampia nozione, è posta in funzione di una concezione del processo che talora è stata definita come pubblicistica, ma che fa leva sul valore della giustizia della decisione. Il che comporta che il rilievo d’ufficio delle eccezioni in senso lato non è subordinato alla specifica e tempestiva allegazione della parte, laddove manchi un’espressa previsione di legge in tal senso (conf. Cass., sez. un., n. 226 del 2001 in ordine all’eccezione di giudicato esterno), ed è ammissibile anche in appello, dovendosi ritenere sufficiente che i fatti risultino documentati ex actis.

Infine, nel 2014 le sezioni unite concludono un’evoluzione coerente alle premesse fissate nel 2001 e sviluppate successivamente sino al 2013, affermando che il giudice innanzi al quale sia stata proposta domanda di nullità contrattuale deve rilevare di ufficio l’esistenza di una causa di quest’ultima diversa da quella allegata dall’istante, essendo quella domanda pertinente ad un diritto autodeterminato, sicché è individuata indipendentemente dallo specifico vizio dedotto in giudizio (Cass., sez. un., n. 26242 del 2014).

Per le sezioni unite che affrontano la fattispecie in esame, tali principi di diritto, formulati per il processo civile ordinario, trovano applicazione anche per il processo tributario.

Sostengono difatti gli Ermellini che l’art. 46 non individua alcun termine per far valere l’efficacia estintiva del giudizio riconducibile all’intervenuta definizione per condono fiscale. L’art. 57, vietando l’introduzione di nuove eccezione in appello, si riferisce alle eccezioni in senso stretto, ovverosia a quelle consistenti nella contrapposizione, da parte del contribuente, convenuto in senso sostanziale, di fatti che attribuiscono per legge un potere ad impugnandum ius, ossia rivolto in tutto o in parte a estinguere il diritto dell’avversario secondo lo schema tipico del diritto potestativo in senso stretto (Cass. n. 9610 del 2012). Infatti il principio di speditezza (art. 111 Cost.), da bilanciare con le garanzie di difesa (art. 24 Cost.), non permette «di ravvisare preclusioni processuali prive di base normativa ed anzi contrarie ad un sistema legale che vede come eccezionale […] la riserva alla parte del potere di eccepire fatti estintivi, impeditivi e modificativi del diritto soggettivo dedotto in giudizio» (conf. Cass., sez. un., n.15661 del 2005).

Ciò – secondo le sezioni unite – ancor più rileva nella specifica materia fiscale quanto alle eccezioni di pagamento e consimili, dovendosi tener conto della derivazione legale delle afferenti obbligazioni e del connesso principio di capacità contributiva, che impone di considerare sempre e comunque rilevabile d’ufficio – e dunque non soggetto a preclusione alcuna – il fatto dell’avvenuta estinzione dell’obbligazione verso l’erario (conf. Cass. n.9610 del 2012). Gli obblighi tributari, infatti, sono obbligazioni pubbliche il cui contenuto è interamente determinato da norme vincolanti e sottratto all’incidenza di poteri discrezionali degli enti impositori.

L’effetto normale del condono premiale ex art. 15 cit. è proprio quello di chiusura del carico fiscale pendente, il che comporta l’elisione della res litigiosa, mediante un pagamento in misura predefinita, e l’eliminazione delle conseguenze sanzionatorie amministrative e penali. Dunque, pagando una somma correlata al tributo accertato e nei termini, si produce effetto estintivo della pretesa tributaria azionata dal fisco con l’atto impositivo notificato al contribuente e da questo impugnato (Cass. n. 25239 del 2007 e altre similari). Sicché il suo operare officioso – secondo gli Ermellini – si connette ai riflessi di ordine pubblico nascenti dalla legge di condono laddove deroga alla legge d’imposta e stabilisce, per i fruitori, un sistema d’imposizione, cioè di riparto della spesa pubblica, diversificato per quelle esigenze di salvaguardia di regolarità e speditezza del gettito ritenute meritevoli di tutela dalla Corte costituzionale nelle decisioni sopra richiamate.

Conclusivamente, le sezioni unite evidenziano che il rilievo giuspubblicistico della definizione condonistica delle pendenze fiscali rende la relativa questione sicuramente rilevabile d’ufficio e, quale eccezione impropria o in senso lato, introducibile per la prima volta in appello anche se la fattispecie estintiva del processo si sia verificata durante il giudizio di primo grado, non operando alcuna preclusione.

In conseguenza di ciò, le sezioni unite enunciano il seguente principio di diritto:

«In tema di processo tributario e con riferimento alla definizione degli avvisi di accertamento, ai sensi dell’art. 15 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (legge finanziaria 2003), l’estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere, ai sensi dell’art. 46 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, relativa alla sanatoria fiscale intervenuta nel corso del giudizio dinanzi alla commissione tributaria provinciale, può essere fatta valere per la prima volta anche in grado di appello, atteso che gli effetti del condono, per il rilievo pubblicistico dell’elisione dell’originario rapporto sostanziale e processuale del contribuente col fisco, non rientra tra le nuove eccezioni in senso tecnico, precluse dell’art. 57 del citato decreto legislativo, ma tra le eccezioni improprie che il giudice stesso è tenuto a rilevare d’ufficio se risultanti dagli atti di causa anche a seguito della produzione di nuovi documenti effettuata in appello in forza dell’art. 58 del ridetto decreto legislativo».

Una breve riflessione

La sentenza in rassegna si inserisce nel solco di quelle decisioni che, già da tempo, hanno tracciato lo spartiacque tra eccezioni in senso stretto ed eccezioni in senso lato.

Dall’excursus motivazionale della sentenza si comprende agevolmente come il cuore del problema riposi  proprio nella “veste” giuridica da attribuire alla definizione condonistica delle pendenze fiscali. L’orientamento ora superato, difatti, focalizzava l’attenzione non su tale aspetto ma sulla circostanza (di tipo privatistico) che il condono determinasse la mera estinzione della originaria obbligazione.

Le sezioni unite, viceversa, pongono l’accento sul rilievo giuspubblicistico della definizione delle pendenze fiscali. Dunque non si tratta di un fatto che, determinando semplicemente l’estinzione dell’obbligazione, è soggetto alle regole del diritto potestativo. Si tratta, piuttosto, di un fatto (l’estinzione del giudizio per intervenuto condono) che il giudice è tenuto a rilevare purchè risulti ex actis, proprio in ragione, come sopra detto, del rilievo pubblicistico dell’istituto.

avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)

managing partner at clouvell (www.clouvell.com)

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