Cassazione civile – sezione terza – sentenza n.9324 del 8 maggio 2015.

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SENTENZA

sul ricorso 23122-2011 proposto da:

ASSESSORATO LLPP REGIONE SICILIANA 80012000826, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato ex lege in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende per legge; – ricorrente –

contro

(Omissis), elettivamente domiciliato in ROMA, presso lo studio dell’avvocato (Omissis) che lo rappresenta e difende giusta procura a margine del controricorso; controricorrente

avverso la sentenza n. 258/2011 della CORTE D’APPELLO di MESSINA, depositata il 24/05/2011 R.G.N. 954/2003; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/01/2015 dal Consigliere Dott. PAOLO D’AMICO;

udito l’Avvocato (Omissis);

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RICCARDO FUZIO che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

Con atto di citazione del 3 aprile 1992, (Omissis) chiese la condanna del Ministero dei LL.PP. nonché dell’Assessorato ai LL.PP. e al Territorio ed Ambiente della Regione Siciliana, al risarcimento dei danni causati alla sua azienda agricola florivivaistica, confinante con la spiaggia del mare, causati dalle mareggiate dell’autunno-inverno 1991. Dedusse l’attore che la causa dei danni era da ricondursi alla irragionevole collocazione dei massi nel mare, in parte vicini alla sua azienda, che aveva modificato il corso regolare delle onde.

Le Amministrazioni convenute chiesero il rigetto delle domande attrici.

Con sentenza del 7 giugno/29 ottobre 2003, n. 2063, il Tribunale di Messina condannò l’Assessorato ai Lavori Pubblici della Regione Siciliana al pagamento, in favore dell’attore, di 137.534,24, oltre accessori, ed estromise le altre Amministrazioni convenute.

Propose appello l’Assessorato ai Lavori Pubblici della Regione Siciliana.

La Corte d’appello di Messina ridusse il danno subito da (Omissis) ad €. 108.591,02, conseguentemente condannando l’Assessorato ai lavori Pubblici della Regione Siciliana, oggi Assessorato Regionale delle Infrastrutture e Mobilità al pagamento della relativa somma, oltre accessori.

Propone ricorso per Cassazione l’Assessorato ai Lavori Pubblici della Regione Siciliana, con quattro motivi. Resiste con controricorso Francesco Andaloro che presenta memoria.

Motivi della decisione

Con il primo motivo parte ricorrente denuncia «difetto di giurisdizione, in relazione all’art. 360 c.p.c. n. 1.»

Sostiene che la Corte d’appello avrebbe errato nel rigettare l’eccezione preliminare, svolta in sede di gravame, in punto di difetto di giurisdizione del G.O., in quanto quest’ultimo non può sindacare le modalità di esercizio dell’azione amministrativa e, dunque, non può conoscere le ragioni che hanno indotto la P.A., in relazione alla specificità del caso di specie, a collocare le scogliere frangiflutti in un determinato modo o in una specifica zona. In altri termini, in ordine alla scelta dei modi e dei mezzi necessari per la realizzazione di opere di interesse pubblico, il sindacato sul criterio adottato dall’amministrazione sarebbe sottratto alla cognizione del G.O. trattandosi di attività discrezionale della P.A. che incontra, nell’ambito del generale principio di “ragionevolezza” dell’agere amministrativo, gli unici limiti imposti dalla legge, dai regolamenti ed, in generale, dal principio del “neminem leedere”.

Ciò posto, in via preliminare deve confutarsi l’eccezione di giudicato esterno sollevata dal resistente sulla base del rilievo che, in altro procedimento, deciso con la sentenza della Corte d’appello di Messina n. 15483/2011, l’affermazione della giurisdizione del giudice ordinario è diventata incontestabile.

Sennonché il vincolo derivante dal giudicato esterno, rilevabile d’ufficio anche in sede di legittimità, deve essersi formato in merito ad una domanda assolutamente sovrapponibile, sotto il profilo dei soggetti interessati, del “petitum” e della “causa petendi” a quella su cui si è pronunciato il giudice del merito con la sentenza impugnata (confr. Cass. civ. 21 maggio 2014, n. 11219), circostanza non ricorrente nella fattispecie, considerato che la sentenza n. 15483 del 2011 di questa Corte, da cui esso nascerebbe, è relativa a una vicenda diversa da quella dedotta in giudizio.

Nel merito il motivo è infondato.

È affermazione costante nella giurisprudenza di questa Corte, che la P.A. nell’esercizio del suo potere discrezionale in ordine alla esecuzione e alla manutenzione delle opere pubbliche, nonché nella vigilanza e controllo in genere dei beni demaniali, incontra i limiti derivanti dalle norme, siano esse di legge o regolamentari, nonché dalle regole tecniche e da quelle di comune prudenza e diligenza e quindi, in primis, dal canone, fondamentale e primario, del neminem laedere. Consegue che la responsabilità della P.A. può essere affermata sempre che si dimostri, da un lato, l’esistenza di un nesso di causalità tra l’opera pubblica o il modo in cui la stessa è stata realizzata e l’evento dannoso; e, dall’altro, la violazione da parte dell’Amministrazione nella realizzazione dell’opera di precise norme di legge o anche tecniche o di comune prudenza (Cass. civ. sez. un. 20 ottobre 2014, n. 22116; Cass. civ. 18 maggio 2000, n. 6463; Cass. civ. sez. un., 14 marzo 2011, n. 5926).

Né a tale approdo ermeneutico è di ostacolo il disposto dell’art. 34 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, come sostituito dall’art. 7 della legge 21 luglio 2000, n. 205 – che devolve al giudice amministrativo le controversie in materia di urbanistica ed edilizia – giacché, a seguito della sentenza n. 204 del 2004 della Corte costituzionale, tale giurisdizione esclusiva non è estensibile alle controversie nelle quali la P.A. non eserciti alcun potere autoritativo finalizzato al perseguimento di interessi pubblici alla cui tutela sia preposta (Cass. civ. sez. un., 14 marzo 2011, n. 5926).

Del resto l’implausibilità del dedotto difetto di giurisdizione emerge a sol considerare che, secondo la stessa prospettazione difensiva dell’Avvocatura, l’attività discrezionale della P.A. incontra “i limiti imposti dalla legge, dai regolamenti e, in generale, dal principio del neminem ledere”.

Nel caso in esame, correttamente, l’impugnata sentenza, attenendosi ai principi innanzi richiamati, ha stabilito che la giurisdizione spettava al giudice ordinario, avendo l’attore lamentato la violazione del suo diritto di proprietà a causa del negligente comportamento dell’assessorato, consistente nell’irrazionale collocazione di massi frangiflutti.

Con il secondo motivo si denuncia «nullità della sentenza per violazione degli artt. 111 costituzione, comma secondo, 101 c.p.c. e 102 c.p.c., in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.»

Sostiene la ricorrente che la Corte d’appello avrebbe errato nel rigettare l’eccezione preliminare in punto di legittimazione passiva in quanto l’Assessorato regionale non ha alcun potere di ingerenza in zone e fatti concernenti il demanio marittimo, trattandosi di competenze affidate alle amministrazioni comunali.

Il motivo è infondato.

L’impugnata sentenza, sulla base della documentazione versata in atti e degli accertamenti del c.t.u., ha individuato nell’Assessorato l’ente che commissionò l’esecuzione delle opere. Ha rilevato in particolare il decidente che la collocazione delle barriere venne disposta, richiesta e programmata dall’Assessorato della Regione siciliana e che la relativa esecuzione venne affidata, quanto alla barriera dal lato Torregrotta, all’impresa ACES e, quanto a quella dal lato Valdina, all’impresa Manganaro Costruzioni.

Il convincimento del giudice di merito, congruamente motivato, resiste alle critiche dell’impugnante, volte a sollecitare una rivalutazione dei fatti e delle prove, preclusa in sede di legittimità.

Con il terzo motivo si denuncia «insufficiente motivazione circa un fatto decisivo e controverso ai fini del giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c. n. 5.»

Sostiene il ricorrente che la Corte d’appello, rigettando il gravame sulla base dell’accoglimento delle risultanze della rinnovata c.t.u., non avrebbe spiegato le ragioni per le quali aveva ritenuto condivisibili le conclusioni del secondo esperto.

Le censure non colgono nel segno.

Esse sono anzitutto gravemente carenti sotto il profilo dell’autosufficienza.

Si ricorda che il ricorrente il quale lamenti l’acritica adesione del giudice di merito alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio non può limitarsi a far valere genericamente lacune di accertamento o errori di valutazione commessi dal consulente o dalla sentenza che ne abbia recepito l’operato, ma, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione ed al carattere limitato del mezzo di impugnazione, ha l’onere di indicare specificamente le circostanze e gli elementi rispetto ai quali invoca il controllo di logicità, trascrivendo integralmente nel ricorso almeno i passaggi salienti e non condivisi della relazione e riportando il contenuto specifico delle critiche ad essi sollevate, al fine di consentire l’apprezzamento dell’incidenza causale del difetto di motivazione (Cass. civ. 17 luglio 2014, n. 16358).

A ciò aggiungasi che il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non già il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico -formale, le argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (Cass., 16 dicembre 2011, 27197).

Ora, nella fattispecie, la Corte d’appello ha adeguatamente motivato le ragioni per le quali ha aderito alla seconda c.t.u. ritenendole “convincenti, condivisibili ed attendibili, in funzione della decisione delle questioni controverse (…) per la analiticità e il rigore tecnico scientifico degli argomenti svolti”.

A fronte di tale iter argomentativo, il ricorrente si limita a generiche e apodittiche critiche della motivazione della sentenza, senza individuare i profili specifici che sarebbero espressivi dell’errata valutazione del giudice di merito.

Con il quarto motivo si denuncia «violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 in relazione all’art. 360 c.p.c. n. 3.»

Il ricorrente Assessorato sostiene che la sentenza impugnata è errata nella parte in cui non ha ritenuto interrotto il nesso causale fra l’operato della P.A. e i danni subiti dall’Andaloro in virtù dell’operare della forza maggiore che invece sarebbe da rinvenire nel caso di specie.

Il motivo è inammissibile.

Quando nel ricorso per Cassazione è – come nel caso – denunziata violazione e falsa applicazione della legge e non vengono indicate anche le argomentazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che si assumono in contrasto con le medesime, il motivo è inammissibile, in quanto non consente alla Corte di cassazione di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass., 18 aprile 2006, n. 8932; Cass., 20 gennaio 2006, n. 1108; Cass., 8 novembre 2005, n. 21659). A tal fine non è infatti sufficiente un’affermazione apodittica, non seguita da alcuna dimostrazione, dovendo invece il ricorrente porre la Corte di legittimità in grado di orientarsi fra le argomentazioni in base alle quali viene censurata la pronunzia impugnata (Cass., 18 aprile 2006, n. 8932; Cass., 15 febbraio 2003, n. 2312; Cass., 21 agosto 199), n. 7851).

Nella specie, come si ricava dal contesto del motivo, parte ricorrente, pur denunziando violazione e falsa applicazione di norme di diritto in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, si limita in sostanza a dolersi dello sfavorevole esito della lite, contrario alle proprie aspettative, per essere state le risultanze di causa valutate in modo difforme dal proprio convincimento. Ne consegue che la formulata denunzia esula dalla previsione di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3.

A ciò aggiungasi che l’impugnata sentenza, con motivazione congrua e adeguata, come tale insindacabile in sede di legittimità, ha escluso l’ipotesi di forza maggiore, sia sulla base della relazione del c.t.u. Caligiore, sia sulla base della mancata prova che le mareggiate dell’autunno – inverno 1991 fossero eventi di eccezionale violenza ed assolutamente inevitabili.

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con condanna di parte ricorrente alle spese del giudizio di cassazione che si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alle spese del giudizio di cassazione che si liquidano in Complessive euro 7.200,00, di cui e 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Roma, 26 gennaio 2015

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