Corte di Cassazione – sezione lavoro – sentenza numero 12074 del 10 giugno 2015

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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte d’Appello di Brescia con la sentenza qui impugnata, in riforma della pronuncia di prime cure, respingeva le domande proposte da (Omissis) nei confronti della (Omissis), intese a conseguire l’accertamento della illegittimità del licenziamento intimatogli in data 22/4/04 e la condanna al pagamento della indennità sostitutiva del preavviso nonchè della indennità prevista dall’art.19 c.c.n.l. Dirigenti Aziende Industriali e condannava l’appellato alla restituzione della somma percepita in esecuzione della sentenza di primo grado.

Nel pervenire a tali conclusioni la Corte distrettuale, per quanto in questa sede rileva, rimarcava che gli addebiti ascritti al (Omissis), consistiti nella partecipazione alla attività di cd. prefatturazione, artificio contabile con il quale — mediante emissione di fatture prima dell’ordine del cliente o della ultimazione della fornitura – era stato occultato, una perdita di bilancio pari a circa 70 milioni di euro, integravano giusta causa di licenziamento. La gravità della condotta, contraria alle norme di legge ed alle regole di contabilità, non poteva infatti ritenersi attenuata dalla circostanza che il descritto artificio contabile fosse stato conosciuto ed ispirato da dirigenti superiori, l’obbligo di correttezza e lealtà assumendo connotati spiccati in particolar modo per le figure dirigenziali apicali nel cui ambito andava ascritto il (Omissis).

Nell’ottica descritta la serietà degli addebiti contestati e provati a carico del dirigente erano tali da non consentire la prosecuzione neanche in via provvisoria, del rapporto di lavoro fra le parti.

Avverso tale decisione interpone ricorso per cassazione il (Omissis) sostenuto da sette motivi.

Resiste con controricorso la (Omissis).

Entrambe le parti hanno presentato memoria ex art. 378 c.p.c..

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.Con il primo motivo si deduce violazione degli art.115 c.p.c. e 97 disp. att. c.p.c. in relazione all’art.360 nn.3-4-5 c.p.c.

Si lamenta che la motivazione della sentenza impugnata sia stata frutto della scienza privata dei giudici del gravame i quali avrebbero esaminato il caso in esame pervenendo alla declaratoria di legittimità del provvedimento espulsivo irrogato, dopo aver tratto elementi di convincimento da precedenti decisioni adottate in relazione a questioni analoghe a quella in tal sede delibata.

Con il secondo mezzo di impugnazione, per violazione dell’art.115 c.p.c. in relazione all’ art.360 n.3 c.p.c. e per omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione ex art.360 n.5 c.p.c. si stigmatizza la pronuncia impugnata per aver ritenuto quale fatto notorio, la circostanza che la cd. pre-fatturazione costituisse pratica contraria alla legge.

Osserva al riguardo il ricorrente, che detta prassi, in sé legittima, può diventare illegittima solo quando venga trattata non correttamente in sede di redazione del bilancio di esercizio. Nello specifico, la Corte distrettuale avrebbe errato nel non aver colto i complessi aspetti contabili connessi al tipo di operazione svolta, tralasciando di considerare che esso ricorrente non aveva mai partecipato alla redazione del bilancio, avendo sviluppato la propria carriera solo in settori di natura spiccatamente produttiva.

Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art.7 legge 300/70 in relazione all’art.360 n.3 c.p.c. nonchè omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione ex art.360 n.5 c.p.c.

Si addebita alla Corte territoriale, di aver ritenuto che la contestazione disciplinare formulata nei confronti del ricorrente, non fosse né generica né tardiva.

Con il quarto motivo viene denunciata violazione degli artt.2106 e 2119 c.c. in relazione all’art.360 n.3 c.p.c. ed omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione ex art.360 n.5 c.p.c.

Si critica la valutazione elaborata dalla Corte territoriale in merito alla sussistenza della giusta causa di licenziamento.

Da un canto, si deduce, con riferimento alla intempestività del provvedimento espulsivo irrogato, una erronea applicazione dei dettami sanciti dall’art.2119 c.c. per aver i giudici del gravame trascurato la circostanza che detto provvedimento era stato irrogato a distanza di oltre tre anni dalla attuazione delle condotte contestate; dall’altro, si ribadisce l’estraneità del ruolo rivestito, rispetto alla attuazione dei meccanismi contabili oggetto di contestazione e censura per insufficienza, criticando la motivazione della impugnata sentenza per non avere individuato quale sarebbe stato l’indefettibile apporto alla commissione degli illeciti.

Con il quinto motivo si denuncia omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione ex art.360 n.5 c.p.c. per avere la Corte distrettuale ritenuto la legittimità del licenziamento, sulla scorta di circostanze indimostrate o contraddittorie.

Con il sesto motivo si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 2105-2106 c.c., dell’art. 7 1.300/70 e dell’art.1362 c.c. in relazione all’art.19 c.c.n.l. Dirigenti Industriali ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 per omessa, contraddittoria ed insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

In particolare si argomenta sulla insussistenza della giustificazione del licenziamento, che non risulta in alcun modo desumibile dalla attività istruttoria espletata, essendosi limitati i giudici del gravame a recepire acriticamente la strumentale ricostruzione dei fatti proposta da parte della società, omettendo di evidenziare l’elemento soggettivo coessenziale alla configurazione dell’illecito disciplinare.

Con il settimo motivo, sotto i profili di violazione di legge e vizio di motivazione, si critica la sentenza impugnata per aver denegato riconoscimento al risarcimento dei danni subiti per effetto del licenziamento ingiurioso e lesione dei diritti della persona.

Il primo motivo di censura è privo di pregio.

Occorre premettere che in tema di esercizio del potere istruttorio d’ufficio ex artt.421 e 437, questa Corte ha statuito che è comunque e sempre necessario il rispetto del principio dispositivo, non potendo detto potere esercitarsi sulla base del sapere privato del giudice, con riferimento a fatti non allegati dalle parti o non acquisiti al processo in modo rituale, dandosi ingresso alle cosiddette prove atipiche, ovvero ammettendosi una prova contro la volontà delle parti di non servirsi di detta prova o, infine, in presenza di una prova già espletata su punti decisivi della controversia, ammettendo d’ufficio una prova diretta a sminuirne l’efficacia e la portata(cfr in tali termini Cass., Sez. Un., 17 giugno 2004 n. 11353 e successivamente, Cass. 13 marzo 2009 n. 6188, Cass. 25 luglio 2011 n. 16182).

Nello specifico, tuttavia, detti principi non risultano vulnerati dalla Corte territoriale, che ha proceduto ad una analitica e puntuale ricostruzione della fattispecie scrutinata, rimarcando come il dirigente, responsabile dei settori produzione, gestione commesse e logistica – tutti necessariamente coinvolti nella attività di pre-fatturazione – fosse direttamente coinvolto nella gestione di questa pratica illecita, poiché ai settori da lui diretti faceva capo l’iniziativa per l’adozione dell’artificio contabile attinente alla fatturazione di merce non prodotta e commercializzata, come documentato in atti e confermato dai testimoni escussi. Si palesa, quindi, l’evidenza, della infondatezza della critica formulata, per avere la Corte distrettuale, pur richiamando gli approdi ai quali era pervenuta in relazione a fattispecie analoga a quella considerata, proceduto ad un approfondito, autonomo scrutinio della fattispecie devoluta alla sua cognizione.

I motivi secondo, quarto e sesto, che possono trattarsi congiuntamente per presupporre la soluzione di questioni giuridiche connesse, presentano profili di inammissibilità, non apparendo agevole distinguere il denunciato vizio di illogica e contraddittoria motivazione da quello di violazione di legge (cfr.Cass. 20 settembre 2013 n.21611, Cass. 18 marzo 2014 n.6230).

Si realizza infatti, in tal caso, una negazione della regola di chiarezza posta dall’art. 366 bis c.p.c. giacchè si affida alla Corte di cassazione il compito di enucleare dalla mescolanza dei motivi la parte concernente il vizio di motivazione, che invece deve avere una autonoma collocazione (vedi fra le tante, Cass. Sez. Lav. 26 marzo 2010 n. 7394 cui adde Cass.8 giugno 2012 n.9341).

Va in ogni caso rilevato che con le formulate censure il ricorrente tende a pervenire ad un inammissibile riesame dei fatti di causa.

Il (Omissis), invero, pur deducendo che i giudici del merito, in tesi, hanno violato e falsamente applicato le molteplici disposizioni normative indicate nella intestazione dei motivi, in realtà, si limita a censurare l’esegesi data dai giudici del merito, delle risultanze di causa, secondo un procedimento ermeneutico ritenuto inadeguato, sollecitando, così, contra legem e cercando di superare quelli che sono i limiti del giudizio di cassazione, un nuovo giudizio di merito su quelle stesse risultanze.

Egli si è addentrato nella ricostruzione della propria vicenda lavorativa, delle competenze a lui ascritte, della teorica legittimità delle operazioni contabili ricondotte alla sua sfera di responsabilità, prospettando una più appagante lettura dei dati istruttori acquisiti, a sé favorevole, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (in termini vedi Cass. 4 aprile 2014 n.8004, Cass. SS.UU.25 ottobre 2013 n.24148).

II motivo di ricorso ex art. 360, co. 1, n.5, c. p. c., non conferisce alla Corte di cassazione il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma solo quello di controllare, sul piano della coerenza logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito, al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento, controllarne l’attendibilità e la concludenza nonché scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti in discussione, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (vedi fra le numerose altre, Cass. cit. n.8004/14).

Nello specifico, per contro, la Corte distrettuale ha reso una motivazione, congrua ed esaustiva, che ha consentito di approdare, sulla scorta dei numerosi dati istruttori acquisiti, ad una definizione – in termini di assoluta gravità – della condotta assunta dal dirigente, il quale, preposto a settori nevralgici ai fini del complessivo assetto aziendale, aveva acconsentito alla adozione di prassi di natura contabile che avevano condotto all’occultamento di perdite di bilancio di rilevante entità.

Nell’ottica descritta, del tutto congrua si prospettava l’adozione della massima sanzione disciplinare connessa al compimento di mancanze da parte del dirigente, che non consentivano la prosecuzione, neanche in via provvisoria, del rapporto di lavoro inter partes.

Quanto al terzo motivo di doglianza, esso palesa l’evidenza di un difetto di autosufficienza, non recando il tenore della lettera di contestazione di cui si lamenta la non corretta esegesi da parte della Corte distrettuale.

Occorre rimarcare al riguardo che il requisito della esposizione sommaria dei fatti, prescritto a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, è volto a garantire la regolare e completa instaurazione del contraddittorio e può ritenersi soddisfatto laddove il contenuto del ricorso consenta al giudice di legittimità, in relazione ai motivi proposti, di avere una chiara e completa cognizione dei fatti che hanno originato la controversia e dell’oggetto dell’impugnazione, senza dover ricorrere ad altre fonti o atti in suo possesso, compresa la stessa sentenza impugnata (cfr, ex plurimis, Cass., SU n. 11653/2006, Cass. 12 giugno 2008 n.15808, Cass. 9 marzo 2010 n.5660).

E’ altresì consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, il principio alla cui stregua, ai fini del rituale adempimento dell’onere, imposto al ricorrente dalla citata disposizione, è necessario indicare specificamente nel ricorso anche gli atti processuali su cui si fonda e di trascriverli nella loro completezza con riferimento alle parti oggetto di doglianza, provvedendo anche alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame (vedi Cass. 6 marzo 2012 n. 4220, Cass. 9 aprile 2013 n. 8569, cui adde Cass. 24 ottobre 2014 n. 22607). Tale specifica indicazione, quando riguardi un documento prodotto in giudizio, postula quindi, che si individui dove sia stato prodotto nelle fasi di merito, e, in ragione dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, anche che esso sia prodotto in sede di legittimità. In altri termini, il ricorrente per cassazione, ove intenda dolersi dell’omessa o erronea valutazione di un documento da parte del giudice di merito, ha il duplice onere – imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 – di produrlo agli atti e di indicarne il contenuto. Il primo onere va adempiuto indicando esattamente nel ricorso in quale fase processuale e in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione; il secondo deve essere adempiuto trascrivendo o riassumendo nel ricorso il contenuto del documento. La violazione anche di uno soltanto di tali oneri rende il ricorso inammissibile.

Nella specie, il documento non risulta trascritto nel suo contenuto, né parte ricorrente indica in quale parte del fascicolo lo stesso sarebbe rinvenibile, non sottraendosi pertanto, in questa sede, ad un giudizio di inammissibilità.

Nel merito, la censura si rivela comunque destituita di fondamento.

La Corte territoriale, nel ritenere non generica ne’ tardiva la lettera di contestazione dell’addebito al (Omissis), ha correttamente posto in luce come le irregolarità contabili a lui addebitate e consistenti in diversi meccanismi di manipolazione dei conti, fossero variamente specificate nella contestazione disciplinare e consentissero la articolazione di una piena difesa, puntualizzando che una piena conoscenza delle condotte assunte dal (Omissis) da parte degli organi rappresentativi della società, si era raggiunta solo nell’aprile 2004, a seguito delle rivelazioni rese dal rag.Vicini e che, tenuto conto della complessità della struttura societaria e delle vicende oggetto di valutazione, non poteva reputarsi intempestiva la contestazione formulata dopo tre mesi dalla acquisizione della cognizione dei fatti ascrivibili alla condotta del dirigente.

In tal senso, la statuizione si colloca nel solco del costante orientamento espresso da questa Corte secondo cui l’immediatezza della contestazione va intesa in senso relativo e, dunque, compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo, allorché l’accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero la complessità della struttura organizzativa dell’impresa sia suscettibile di far ritardare il provvedimento di recesso, restando comunque riservata al giudice del merito la valutazione delle circostanze di fatto sottese (vedi Cass. 19 giugno 2014 n.13955), e si sottrae alle censure formulate da parte ricorrente, per essere sorretta da motivazione congrua e corretta sul piano giuridico.

Anche il quinto mezzo di impugnazione, con il quale si stigmatizza l’iter argomentativo seguito dalla Corte distrettuale nel pervenire all’accertamento della legittimità del licenziamento sulla scorta di circostanze indimostrate o contraddittorie, è privo di pregio.

Ancora una volta il ricorrente si è limitato ad esporre un’interpretazione dei dati istruttori acquisiti a sé favorevole, al solo fine di indurre il convincimento del giudice di legittimità che l’adeguata valutazione di tali fonti probatorie avrebbe giustificato l’accoglimento della domanda. Ha fatto valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice di merito al diverso convincimento soggettivo patrocinato, proponendo un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti, non concesso in questa sede perché estraneo alla natura ed alla finalità del giudizio di legittimità.

Inoltre, del tutto genericamente ha contrapposto la tesi accreditata, relativa alla assenza di responsabilità in ordine al concorso nella realizzazione dell’artificio contabile oggetto di contestazione, rispetto a quella formulata dalla corte distrettuale, senza indicare specificamente gli elementi che avrebbero consentito di confortare la propria tesi, in violazione dei principi espressi da questa Corte alla cui stregua, ove il convincimento del giudice di merito si sia realizzato attraverso una valutazione dei vari elementi probatori acquisiti, considerati nel loro complesso, il ricorso per cassazione deve evidenziare l’inadeguatezza, l’incongruenza e l’illogicità della motivazione, alla stregua degli elementi complessivamente utilizzati dal giudice, e di eventuali altri elementi di cui si dimostri la decisività, onde consentire l’apprezzamento dell’incidenza causale del vizio denunciato sul “decisum” ( vedi Cass. 11 luglio 2011 n. 15156).

Il settimo motivo di censura, attinente al mancato riconoscimento del risarcimento danni subiti per ingiuriosità del licenziamento e lesione dei diritti della persona, resta logicamente assorbito, alla stregua delle motivazioni sinora esposte.

In definitiva, sotto tutti i profili delineati, il ricorso, in quanto infondato, deve essere respinto.

Le spese del giudizio di legittimità seguono il principio della soccombenza nella misura in dispositivo liquidata.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in euro 100,00 per esborsi ed euro 4.000,00 per compensi professionali oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma il giorno 4 marzo 2015.

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