Corte Suprema di Cassazione – sezione terza civile – sentenza n. 16894 depositata il 16 settembre 2019

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FATTI DI CAUSA
Detenuta (Omissis) ha proposto ricorso, basato su due motivi e illustrato da memoria, avverso il decreto n. 5964/2016, pubblicato in data 11 maggio 2016.
Con tale decreto, pronunciando sul ricorso proposto, ai sensi dell’art. 35-ter legge 26 luglio 1975, n. 354, dalla detenuta (Omissis) e volto ad ottenere la condanna del Ministero della Giustizia al risarcimento dei danni patiti per effetto della detenzione subita in violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo presso la Casa Circondariale di Rebibbia Femminile — Roma dal 2 dicembre 1992 al 10 agosto 1993, dal 23 agosto 2009 al 3 settembre 2009, dal 20 ottobre 2012 al 16 novembre 2012 e dal 24 maggio 2013 al 18 luglio 2013, per un totale di 338 giorni, il Tribunale di Roma, in relazione ai periodi detentivi correnti dal 2 dicembre 1992 al 10 agosto 1993 e dal 23 agosto 2009 al 3 settembre 2009, ha rigettato la domanda per intervenuta prescrizione e, in relazione ai periodi detentivi correnti dal 20 ottobre 2012 al 16 novembre 2012 e dal 24 maggio 2013 al 18 luglio 2013, ha accolto la domanda della ricorrente limitatamente a giorni 29 e, per l’effetto, ha condannato il Ministero della Giustizia a pagare, in favore della detenuta (Omissis), a titolo di risarcimento del danno, la complessiva somma di euro 232,00 oltre accessori, come specificato nella motivazione di quel decreto e ha compensato integralmente fra le parti le spese di quel grado.
Il Ministero della Giustizia ha resistito con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE

Il primo motivo è così rubricato: «Art. 360, n. 3, c.p.c.. “per violazione o falsa applicazione di norme di diritto …” Violazione e/o erronea e/o falsa applicazione degli art. 2043 e 2947 c. c. anche in combinato disposto con l’art. 35-ter Ordinamento Penitenziario introdotto dal D. L. n. 92/2014, difetto di presupposti legali / Violazione dell’art. 12 delle preleggi e dei criteri ermeneutici e di interpretazione legislativa per non conformità alla Costituzione ed in particolare agli art[t]. 107 e 111 della Costituzione in tema interpretazione costituzionalmente e “convenzionalmente” orientata e di giusto processo nonché dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo oltre che dei principi sanciti dalla Corte EDU nella cd. sentenza Torreggiani ed altri c. Italia, n. 43517/09, 8 gennaio 2013 / Violazione di legge per omessa applicazione degli artt. 1173, 2051 e 2946 c.c., error in procedendo et in iudicando».
Con il motivo all’esame la ricorrente lamenta che il Tribunale abbia rigettato il ricorso relativamente al periodo dal 21 giugno 1997 al 21 gennaio 2010 ritenendo prescritti i danni verificatisi fino al 19 marzo 2010 e sostiene che tale decisione sarebbe «viziata da un evidente e palese erroneo inquadramento sistematico nonché frutto di erronee valutazioni ed interpretazioni della normativa di settore applicabile, con particolare riferimento all’art. 35-ter O. P. introdotto dal D.L. n. 92/2014 … nonché sulla conseguente determinazione del dies a quo della prescrizione quinquennale».
Ad avviso della ricorrente, il Tribunale avrebbe erroneamente ritenuto di ricondurre la vicenda all’esame nell’alveo della responsabilità extracontrattuale, laddove, invece, dovrebbe farsi riferimento alla responsabilità contrattuale, con conseguente applicazione del termine prescrizionale ordinario decennale.
Il secondo motivo è così rubricato: «Art. 360, n. 3, c.p.c.. “per violazione o falsa applicazione di norme di diritto …” Art. 360, n. 5, c.p.c.. per “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. Violazione e/o erronea applicazione degli art[t]. 2043 e 2947 c.c., anche in combinato disposto con l’art. 35 ter, comma 3„ L. n. 354/1975 (così come modificato dal D.L. n. 92/2014) per quanto concerne la decorrenza della prescrizione – difetto di presupposti legali, dell’art. 111 della Costituzione in tema di giusto processo nonché dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo oltre che dei principi sanciti dalla C.E.D.U. nella cd. sentenza Torreggiani ed altri c. Italia 8 gennaio 2013, ricorso n. 43517/09. Error in procedendo et in iudicando».
La ricorrente sostiene che il Tribunale avrebbe fondato il rigetto (parziale) della domanda facendo erroneamente coincidere il dies a quo della prescrizione «con i fatti contestati e non invece con l’entrata in vigore dell’art. 35 ter Ord. Pen. avvenuta in data 23 giugno 2014 (nel qual caso la domanda sarebbe stata ritenuta proposta nel termine di prescrizione quinquennale, pur considerandola illecito extracontrattuale ai sensi dell’art. 2043 c.c.)», in contrasto con la normativa italiana, con la ratio della stessa e con la giurisprudenza della Corte EDU.
Quanto poi al mancato accoglimento della domanda con riferimento al restante periodo detentivo trascorso dalla ricorrente presso la già indicata casa circondariale dal 20 ottobre 2012 al 16 novembre 2012 e dal 24 maggio 2013 al 18 luglio 2013, la detenuta (Omissis) lamenta «l’erronea applicazione dell’art. 35 ter Ord. pen. in ordine all’art. 3 CEDU come interpretato dalla giurisprudenza della Corte Edu».
Secondo la ricorrente, superata la questione della prescrizione, la domanda avrebbe dovuto essere accolta per tutti gli altri periodi di detenzione subiti in violazione dell’art. 3 CEDU presso la Casa Circondariale di Rebibbia Femminile Roma. Al riguardo la detenuta (Omissis) deduce che, nella valutazione della violazione dell’art. 3, secondo la Corte EDU, oltre all’elemento quantitativo dello spazio a disposizione dei detenuti, occorre far riferimento anche alla durata della detenzione, alla possibilità per il detenuto di svolgere attività all’aperto e alle condizioni fisiche e mentali cui il detenuto è costretto; rappresenta, inoltre, che la medesima Corte, nel chiarire la metodologia per il calcolo dello spazio personale a disposizione dei detenuti, afferma che i sanitari non dovrebbero essere considerati nella superficie disponibile ma andrebbe incluso lo spazio occupato dai mobili. La ricorrente in particolare sostiene che, come ritenuto dalla sentenza Grande Camera Mursic c. Croazia, quando lo spazio personale a disposizione di ciascun detenuto scende al di sotto di 3 mq, sussisterebbe una forte presunzione di violazione dell’art. 3 CEDU e che «l’onere di provare che la violazione non sussiste grava in capo al Governo convenuto, che potrebbe confutare tale presunzione dimostrando l’esistenza di elementi in grado di compenserete scarsità di spazio».
Rappresenta, altresì, la ricorrente di essere stata ristretta in celle che consentivano uno spazio pro capite inferiore a mq. 3 e con orari di uscita dalle celle limitati, che le celle erano carenti di illuminazione naturale e di aerazione, erano sprovviste di adeguato riscaldamento e che le strutture detentive non avevano fornito in concreto assistenza psicologica né attività rieducative, lavorative e ricreative nonostante l’apertura prolungata delle celle per passeggiare all’interno della sezione. Ad avviso della detenuta (Omissis), la valutazione globale degli elementi forniti indicherebbe che la medesima abbia trascorso la maggior parte dei periodi detentivi in condizioni disumane e degradanti.
I motivi, che per connessione possono essere esaminati congiuntamente, sono fondati per quanto di ragione.
3.1. Osserva il Collegio che le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza 8/5/2018, n. 11018, hanno di recente chiarito che: a) la nuova disciplina prevista dall’art. 35-te.r Ord. Pen. ha introdotto un mero “indennizzo” in una logica di forfetizzazione della liquidazione; b) la natura di mero indennizzo e il fondarsi della responsabilità nella violazione di obblighi gravanti ex lege sull’Amministrazione penitenziaria nei confronti dei soggetti sottoposti alla custodia carceraria depongono in senso concorde ai fine di escludere l’applicabilità della regola specifica prevista dall’art. 2947, primo comma, cod. civ. per la prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito, di modo che vale la regola generale della prescrizione decennale; c) il rimedio enucleato dar legislatore italiano con l’introduzione del art. 35-ter Ord. Pen. ha carattere retroattivo, come si può evincere, oltre che dalla premessa e dal senso complessivo della nuova normativa, finalizzata a definire anche le situazioni pregresse, dalla disciplina intertemporale dettata dall’art. 2, che, in tema di decadenza, fa inequivocabilmente riferimento, sia nel primo che nel secondo comma, a detenzioni degradanti ed inumane già conclusesi (e quindi anteriori) al momento dell’entrata in vigore della legge; d) con riferimento alle situazioni in cui la detenzione sia cessata prima dell’entrata in vigore della legge, il termine di prescrizione decorre da quest’ultima data, e cioè dal momento in cui la nuova disciplina è stata introdotta nell’ordinamento, poiché il rimedio risarcitorio in esame non era prospettabile in epoca antecedente; questa assenza di un precedente strumento di tutela, accessibile ad effettivo «integra un impedimento all’esercizio del diritto rilevante ai sensi del generale principio di cui all’art. 2935 cod. civ., in base al quale /a prescrizione decorre soltanto dal giorno in cui il diritto può essere fittto valere»; formula da intendersi con riferimento alla possibilità legale, non influendo sul corso della prescrizione, salve le eccezioni stabilite dalla legge, l’impossibilità di fatto di agire in cui venga a trovarsi il titolare del diritto; e) se nell’ambito della disciplina transitoria dettata dall’art. 2 del d.l. n. 92 del 2014 la prescrizione decorre dall’entrata in vigore della legge, questa forma di estinzione rimarrà assorbita in tutti i casi in cui il diritto viene meno, perché l’azione non è stata proposta nel termine di decadenza di sei mesi dalla entrata in vigore della legge.
Queste ragioni hanno indotto le Sezioni Unite di questa Corte ad affermare il principio secondo cui «il diritto ad una somma di denaro pari a euro 8 per ciascuna giornata di detenzione in condizioni non conformi ai criteri di cui all’art. 3 della CEDU, previsto dall’art. 35-ter comma 3, della I. n. 354/1975, come introdotto dall’art. 1 del d. I. n. 92/2014, convertito con modificazioni dalla legge n. 117/2014, si prescrive in dieci anni, trattandosi di un indennizzo che ha origine nella violazione di obblighi gravanti ex lege sull’Amministrazione penitenziaria; il termine di prescrizione decorre dai compimento di ciascun giorno di detenzione nelle su indicate condizioni, salvo che per coloro che abbiano cessato di espiare la pena detentiva prima del 28 giugno 2014, data di entrata in vigore del di. citato, rispetto al quali, se non sono incorsi nelle decadenze previste dall’art. 2 del d.l. n. 92 del 2014, il termine comincia a decorrere solo da tale data» (v. anche Cass., ord., 3/08/2018 n. 20528).
3.2. A tali principi non risulta essersi attenuta la Corte di merito sicché sono fondate le censure di cui al primo motivo e alla prima parte del secondo motivo.
3.3. In relazione alle doglianze relative al mancato accoglimento della domanda per tutti gli ulteriori periodi di detenzione di cui si discute in causa, le stesse sono invece / infondate.
Ed infatti, è pur vero che questa Corte ha affermato che in tema di risarcimento del danno ex art. 35-ter, comma 3, della I. n. 354 del 1975, qualora, in una cella collettiva, la superficie utilizzabile da ciascun detenuto risulti inferiore a 3 mq., sussiste le, “forte presunzione” della violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, la quale, alla luce della giurisprudenza della Corte EDU, può essere superata attraverso la valutazione di adeguati fattori compensativi – che si individuano nella brevità della restrizione carceraria, nell’offerta di attività in ampi spazi all’esterno della cella, nell’assenza di aspetti negativi relativi ai servizi igienici e nel decoro complessivo delle condizioni di detenzione – la cui esistenza è onere dello Stato, convenuto in giudizio, provare (Cass. 20/02/2018, n. 4096) e che la stessa Corte ha pure più di una volta ribadito che lo Stato incorre nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti nei confronti di soggetti detenuti o internati, stabilito dall’art. 3 della CEDU, così come interpretato dalla conforme giurisprudenza della Corte EDU, quando, in una cella collettiva, il detenuto non possa disporre, singolarmente di almeno 3 mq. di superficie, calcolati detraendo l’area destinata ai servizi igienici e agli armadi appoggiati, o infissi, stabilmente alle pareti o al suolo ed anche lo spazio occupato dai letti (sia a castello che singoli), che riducono lo spazio libero necessario per il movimento, senza che, invece, abbiano rilievo gli altri arredi facilmente amovibili, come sgabelli o tavolini (Cass. 20/02/2018, n. 4096; Cass. 24/05/2018, n. 12955).
Tuttavia, nella specie, il Tribunale, con accertamento in fatto, non censurabile in sede di legittimità, tenendo conto «del complesso delle restanti condizioni detentive», ha escluso per i periodi detentivi in parola la sussistenza di una situazione di trattamento inumano e degradante.
Peraltro, le censure sul punto risultano generiche e non relative alla specifica situazione di detenzione di cui si discute.
Il ricorso deve essere, pertanto, accolto solo per quanto di ragione e nei termini sopra precisati; il decreto impugnato va cassato e la causa va rinviata, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, al Tribunale di Roma, in persona di diverso magistrato.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione e nei termini precisati in motivazione; cassa il decreto impugnato e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, al Tribunale di Roma, in persona di diverso magistrato.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza

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