Il decreto di sequestro probatorio in ambito penale deve enunciare sia il nesso di pertinenzialità tra la cosa ed il reato che le esigenze probatorie giustificatrici. In difetto, esso si trasforma in una illegittima aggressione del diritto di proprietà costituzionalmente e comunitariamente garantito.
Lo ha ribadito la Suprema Corte di Cassazione – sezione seconda penale – con sentenza 10 aprile 2015 n.16786.
Il caso
Nei confronti di due soggetti veniva convalidato il sequestro probatorio di 303 capi di abbigliamento con marchio di una nota azienda che si assumeva contraffatto.
Gli imputati proponeva istanza di riesame ed il Tribunale annullava il decreto di convalida di sequestro probatorio osservando che il decreto non risultava motivato in relazione alla sussistenza di esigenze probatorie. Da qui il ricorso per cassazione, da parte del P.M. per violazione di legge in relazione agli artt. 324 cod. proc. pen. e 240, II comma cod. pen. in quanto, viceversa, il decreto della procura risultava motivato «dovendosi accertare le modalità della contraffazione dei capi di abbigliamento e la loro confondibilità rispetto ai prodotti originari», ed ancora la revoca del sequestro probatorio non poteva essere disposta, a norma dell’art. 240, II comma, trattandosi di cose soggette a confisca obbligatoria.
La Corte di cassazione accoglie il ricorso
La Suprema Corte ricorda che il nuovo codice di procedura penale, in rottura con quello precedente, ha introdotto delle figure specifiche di sequestro – probatorio, preventivo, conservativo – ciascuna delle quali caratterizzata da natura e presupposti ben specificati e differenziati, e si discosta nettamente, dunque, da quella configurazione unificante (e massificante) al contrario prevista dal codice abrogato, che faceva del sequestro un rimedio proteiforme e plurifunzionale.
L’intervento delle Sezioni Unite del 1991.
Nel 1991, le Sezioni unite ebbero ad affermare il principio secondo il quale «l’art. 354, comma secondo, cod. proc. pen. non attribuisce alla Polizia Giudiziaria il potere di eseguire il sequestro in assenza delle condizioni richieste per il sequestro operato dal Pubblico Ministero e indipendentemente da un pericolo di mutamento della situazione di fatto e dalla impossibilità di un tempestivo intervento del P.M.. Dopo la convalida da parte del Pubblico Ministero del sequestro operato dalla Polizia Giudiziaria (che ha la stessa funzione del decreto del PM che dispone il sequestro ed è soggetto ai medesimi controlli) il Giudice del riesame non deve stabilire se vi era pericolo di mutamento della situazione di fatto e impossibilità di un tempestivo intervento del Pubblico Ministero, perché si tratta di presupposti coperti dalla convalida, ma deve controllare se il sequestro sia o meno giustificato e, in ogni caso, verificare la sussistenza delle esigenze probatorie, sia che il sequestro riguardi cose pertinenti al reato, sia che abbia avuto ad oggetto il corpo del reato. Di tale verifica il Tribunale deve dare conto con la motivazione della sua decisione.» (Sez. U, n. 10 del 18/06/1991 – dep. 24/07/1991, Raccah, Rv. 187861).
L’intervento delle Sezioni Unite del 2004.
Un nuovo intervento delle Sezioni unite si è registrato nel 2004 a seguito di altro contrastante orientamento sorto dopo e nonostante l’intervento della precedente pronunzia delle Sezioni Unite.
Anche in tale occasione la Suprema Corte ha ribadito il principio secondo il quale anche per le cose che costituiscono corpo di reato il decreto di sequestro a fini di prova deve essere sorretto, a pena di nullità, da idonea motivazione in ordine al presupposto della finalità perseguita, in concreto, per l’accertamento dei fatti.
Il provvedimento di sequestro probatorio deve enunciare le finalità di volta in volta perseguite.
Per la Suprema Corte, la soluzione interpretativa che esige la enunciazione (nel decreto di sequestro) delle finalità di volta in volta perseguite con tale strumento è l’unica compatibile con i limiti dettati dall’intervento penale sul terreno delle libertà fondamentali e dei diritti costituzionalmente garantiti dell’individuo, quale è certamente il diritto alla «protezione della proprietà» riconosciuto dall’art. 42 Cost. e dall’art. 1 del Primo protocollo addizionale della CEDU.
Per gli Ermellini, si tratta, dunque, di una interpretazione non soltanto costituzionalmente, ma anche “convenzionalmente” necessaria, dal momento che, soltanto ove la finalizzazione probatoria del corpo del reato fosse connotato “ontologico” ed immanente rispetto alla “natura” delle cose inquadrabili in quel concetto, potrebbe dirsi che il postulato della motivazione delle finalità del sequestro potrebbe dirsi soddisfatto dalla motivazione che quelle cose rappresentano, nel caso di specie, un “corpo di reato”.
Il principio di diritto espresso dalla Suprema Corte
In definitiva, il decreto di sequestro probatorio deve contenere una motivazione che “spieghi,” non soltanto il nesso di pertinenzialità tra la cosa ed il reato, ma anche l’esigenza probatoria che giustifica il provvedimento di cautela, giacchè, ove così non fosse, il vincolo sulla proprietà e sulla libera disponibilità dei propri beni risulterebbe, in sé, privo di una causa giustificatrice, e, come tale, in palese contrasto con i principi costituzionali e della Convenzione EDU.
Una breve riflessione
La sentenza in evidenza appare di notevole importanza in quanto, nell’affrontare la tematica relativa alla legittimità del sequestro probatorio, affronta la diversa ma connessa tematica della tutela della proprietà dei beni oggetto di sequestro.
Giacchè, il sequestro, anche quello probatorio, riguarda sempre beni di proprietà di un altro soggetto privato. Emerge, dunque, da un lato, l’interesse generale della collettività alla repressione del reato (e, segnatamente, avuto riguardo al sequestro probatorio, l’interesse alla conservazione delle fonti di prova), e dall’altro, l’interesse del singolo proprietario dei beni sequestrati (o di chi ne aveva, per qualsiasi motivo, la disponibilità) a poter disporre liberamente del bene.
Per la soluzione di tale conflitto di interessi si pone il principio espresso della Suprema Corte: ove il provvedimento cautelare non spiegasse puntualmente il nesso di pertinenzialità tra la cosa ed il reato, esso sarebbe privo di causa giustificatrice. Al contempo, qualora il provvedimento cautelare non spiegasse le esigenze probatorie giustificatrici, esso sarebbe parimenti privo di causa giustificatrice.
Solo alla ricorrenza di entrambi i richiamati presupposti può essere “attenuato” e limitato il diritto alla «protezione della proprietà» riconosciuto dall’art. 42 Cost. e dall’art. 1 del Primo protocollo addizionale della CEDU in forza del quale “nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali di diritto internazionale”.
In definitiva, dal principio di diritto espresso consegue che i presupposti per l’emissione ed il mantenimento di un sequestro probatorio sono due e devono entrambi coesistere: il nesso di pertinenzialità tra il bene ed il reato nonché le esigenze probatorie giustificatrici. Difettando anche uno solo di essi, il decreto di sequestro si trasforma in una illegittima aggressione al diritto di proprietà costituzionalmente e comunitariamente garantito.
avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)
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