La liquidazione del danno permanente da perdita della capacità di guadagno

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Il danno permanente da incapacità di guadagno non può essere liquidato in base ai coefficienti di capitalizzazione approvati con r.d. 9.10.1922 n. 1403, i quali a causa dell’innalzamento della durata media della vita e dell’abbassamento dei saggi di interesse non garantiscono l’integrale ristoro del danno, e non sono perciò consentiti dalla regola di integralità del risarcimento di cui all’art. 1223 c.c..

Lo ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione – sezione terza civile – con sentenza n. 20615 del 14 ottobre 2015

La liquidazione del danno permanente da perdita della capacità di guadagno

La liquidazione del danno permanente da perdita della capacità di guadagno

Il caso

Nel gennaio del 1997 un individuo rimase vittima d’un sinistro stradale. Nel 1999 la vittima convenne dinanzi al Tribunale la persona indicata come responsabile, ovvero  e l’assicuratore della responsabilità civile di questi, chiedendone la condanna in solido al risarcimento dei danni patiti.

Con ordinanza 17.5.2005 pronunciata ai sensi dell’art. 186 quater c.p.c., il Tribunale accolse la domanda.

L’ordinanza acquistò l’efficacia della sentenza per rinunzia a quest’ultima da parte della compagnia di Assicurazioni.

L’appello

Contro l’ordinanza propose appello il danneggiato, il quale lamentò la sottostima del danno.

La sentenza di appello

La Corte d’appello di Lecce con sentenza 7.11.2011 rigettò il gravame.

Il ricorso per cassazione

La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione dal danneggiato sulla base di due motivi articolati in più censure ed illustrati da memoria.

I motivi di ricorso

Col primo motivo di ricorso il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe affetta sia da una violazione di legge, ai sensi all’art. 360, n. 3, c.p.c. (si assumono violati gli artt. 32 cost.; 1223, 1226, 2043, 2056, 2059 c.c.; 112, 115 c.p.c.); sia da un vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c..

Il motivo, formalmente unitario, si articola in più censure autonome, con le quali il ricorrente lamenta che la Corte d’appello:

  • (a) ha liquidato il danno alla salute con criteri diversi da quelli elaborati e diffusi dal Tribunale di Milano (c.d. “Tabelle”);
  • (b) ha comunque motivato in modo apodittico sulla stima del danno non patrimoniale;
  • (c) ha applicato in modo erroneo le tabelle “del Salento” (con un minus in suo danno di circa 96 euro);
  • (d) non ha attualizzato il risarcimento;
  • (e) ha sottostimato il c.d. “danno morale”.

La prima censura viene ritenuta fondata con assorbimento delle restanti.

Secondo i giudici di piazza Cavour, le tabelle uniformi adottate dal Tribunale di Milano per la liquidazione del danno alla persona sono state indicate dalla Suprema Corte come il parametro equitativo preferibile, in linea generale, per la liquidazione del danno non patrimoniale, ove la legge non disponga altrimenti.

Tale principio è stato affermato per la prima volta dalla sentenza pronunciata da Sez. 3, Sentenza n. 12408 del 07/06/2011, Rv. 618048, e più volte ribadito in seguito da ultimo, da Sez. 3, Sentenza n. 5243 del 06/03/2014, Rv. 630077.

E poiché tale criterio di liquidazione non è stato adottato dalla sentenza impugnata, la sentenza viene cassata sul punto con rinvio alla Corte d’appello, la quale provvederà a liquidare il danno non patrimoniale invocato dal ricorrente:

  • (a) o assumendo a parametro di riferimento le tabelle uniformi di cui si è detto;
  • (b) ovvero indicando analiticamente le ragioni per le quali, nel caso di specie, non sarebbe equo applicare le suddette tabelle.

Col secondo motivo di ricorso il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe affetta sia da una violazione di legge, ai sensi all’art. 360, n. 3, c.p.c. (si assumono violati gli artt. 1223, 2697, 2729 c.c.; 115 c.p.c.; r.d. 9.10.1922 n. 1403); sia da un vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c..

Il motivo, formalmente unitario, si articola in quattro censure.

  • Con una prima censura il ricorrente lamenta che la Corte d’appello avrebbe illogicamente motivato il rigetto della sua domanda di risarcimento del danno patrimoniale per perdita di alcune indennità lavorative.
  • Con la seconda censura il ricorrente sostiene che la motivazione della sentenza impugnata sarebbe illogica nella parte in cui, nonostante il consulente tecnico d’ufficio avesse accertato una “riduzione della capacità lavorativa specifica” del 10%, ha ritenuto che tale pregiudizio incidesse solo sullo svolgimento, da parte della vittima, dell’attività di libero professionista, ma non su quella di medico pubblico dipendente.
  • Con la terza censura il ricorrente sostiene che la Corte d’appello avrebbe errato nel liquidare il danno patrimoniale da perdita della capacità di guadagno capitalizzando il reddito perduto in base ai coefficienti di cui al r.d. 1403/22, divenuto inadeguati a causa dell’allungamento della durata media della vita media.
  • Con la quarta ed ultima censura il ricorrente sostiene che la Corte d’appello avrebbe errato nell’escludere il rimborso della spese mediche sostenute dalla vittima.

La prima e seconda censure vengono respinte dalla Suprema Corte, contrariamente alla terza (del secondo motivo) che viene dunque ritenuta fondata.

Il Tribunale ha erroneamente liquidato il danno patrimoniale da incapacità di lavoro.

Per gli Ermellini, il Tribunale di Taranto ha liquidato il danno patrimoniale da incapacità di lavoro patito dal danneggiato:

  • (a) determinando in via equitativa la quota di reddito perduto;
  • (b) moltiplicando questa quota per un coefficiente di capitalizzazione.

In buona sostanza – proseguono i giudici di legittimità – il Tribunale ha usato un coefficiente di capitalizzazione tratto dalla tabella allegata al r.d. 9.10.1922 n. 1403 (recante “Approvazione delle nuove tariffe per la costituzione delle rendite vitalizie della Cassa nazionale per le assicurazioni sociali” ), e la relativa statuizione è stata confermata dalla Corte di appello.

Orbene, per gli Ermellini, questa statuizione della Corte d’appello è illegittima per violazione dell’art. 1223 c.c..

Il risarcimento deve essere integrale.

Ricordano i giudici di piazza Cavour che il risarcimento del danno deve essere integrale: cioè comprendere tanto la perdita subita, quanto il mancato guadagno (art. 1223 c.c.).

In particolare, il danno da perdita della capacità di lavoro e di guadagno è un danno permanente: esso infatti è destinato a riprodursi anno per anno, per tutta la vita lavorativa della vittima.

L’integrale risarcimento del danno permanente può avvenire in due modi: vuoi in forma di rendita (art. 2057 c.c.), vuoi in forma di capitale.

I due criteri possibili per trasformare in capitale il reddito perduto de die in diem

Per gli Ermellini, per trasformare in capitale il reddito perduto de die in diem dalla vittima  sono possibili in teoria due criteri.

Il primo criterio

Il primo consiste nel sommare tutti i renditi che la vittima perderà tra il momento della liquidazione e il momento futuro in cui avrebbe comunque cessato il lavoro, e quindi nell’applicare al risultato un saggio di sconto, per tenere conto del fatto che la vittima percepisce immediatamente redditi che, se fosse rimasta sana, avrebbe incassato solo tra n anni (e quindi il danneggiato trarrebbe vantaggio dal risarcimento se non si eliminasse, attraverso lo sconto, il c.d. “montante di anticipazione”).

Il secondo criterio – Il coefficiente di capitalizzazione

Il secondo criterio consiste nel moltiplicare il reddito annuo perduto dalla vittima (al netto delle imposte e debitamente rivalutato all’epoca della liquidazione) per un numero che tenga già conto del montante di anticipazione. Questo numero è detto coefficiente di capitalizzazione.

Il r.d. 9.10.1922 n.1403.

Ricordano i giudici della Suprema Corte che i coefficienti di capitalizzazione approvati con r.d. 9.10.1922 n. 1403 sono stati calcolati sulla base delle tavole di mortalità ricavate dal censimento della popolazione italiana del 1911, e presuppongono una produttività del denaro al saggio del 4,5%. I suddetti coefficienti non consentono l’integrale ristoro del danno prescritto dall’art. 1223 c.c., e la loro adozione non è dunque consentita nemmeno in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c.. E ciò per quattro ragioni.

Le quattro ragioni per cui non è possibile adottare i coefficienti ex r.d. 9.10.1922 n.1403.

  • La prima ragione è che la vita media della popolazione italiana si è notevolmente accresciuta nel secolo trascorso tra il 1922 ed il 2015. Nel 2014 – proseguono gli Ermellini – l’Istituto Nazionale di Statistica ha determinato la speranza di vita alla nascita per la popolazione italiana in 80,2 anni per gli uomini ed 84,9 anni per le donne. Nel 1900 la speranza di vita media della popolazione italiana (calcolata, all’epoca, indistintamente per maschi e femmine) era di soli 54,9 anni. Pertanto – concludono i giudici di piazza Cavour – liquidare il danno permanente in base ad un coefficiente calcolato su una speranza di vita inferiore di oltre un terzo a quella reale non può dirsi in alcun modo un risarcimento “integrale” ai sensi dell’art. 1223 c.c..
  • La seconda ragione è che i coefficienti di capitalizzazione di cui al r.d. 1403/22 sono unici per maschi e femmine, mentre la durata della vita media è diversa per i due sessi. Ciò conduce ad una sovrastima del danno patito dalla vittima maschile, e ad una sottostima per le vittime dell’altro sesso. Anche tale circostanza non soddisfa, pertanto, la regola di integralità di cui all’art. 1223 c.c..
  • La terza ragione è che i coefficienti di capitalizzazione di cui al r.d. 1403/22 sono calcolati ad un saggio del 4,5%. Tale saggio indica la quota di risarcimento che viene detratta per tenere conto della anticipata capitalizzazione, rispetto all’epoca futura in cui il danno si sarebbe effettivamente verificato. Il saggio al quale viene calcolato il coefficiente di capitalizzazione indica dunque il “vantaggio” che il creditore teoricamente acquisisce per effetto del pagamento immediato, ed è pari alla ipotetica remunerazione che il denaro ottenuto gli dovrebbe garantire attraverso le forme più comuni di investimento senza rischio di capitale. Orbene, prosegue la Suprema corte, il saggio del 4,5%, al quale sono calcolati i coefficienti di cui al r.d. 1403/22, non è più corrispondente alla realtà, in un’epoca in cui il tasso legale degli interessi è pari allo 0,5% e gli investimenti in titoli a reddito fisso raramente garantiscono rendimenti superiori al 2%. Pertanto l’adozione dei coefficienti di cui al r.d. 1403/22 ha l’effetto di decurtare dal risarcimento un importo superiore a quello che, per effetto dell’anticipato pagamento, il danneggiato potrebbe ottenere attraverso l’impiego proficuo di quella somma: anche sotto tale profilo, pertanto, i coefficienti in esame non soddisfano, secondo i giudici di legittimità, la regola di integralità di cui all’art. 1223 c.c..
  • La quarta ragione – concludono i giudici di piazza Cavour – è che il r.d. 9.10.1922 n. 1403 è stato implicitamente abrogato per effetto della soppressione della Cassa Nazionale per Assicurazioni Sociali (CNAS, ovvero l’ente erogatore delle prestazioni disciplinate dal suddetto decreto), e della sua sostituzione dapprima dall’Istituto Nazionale Fascista della Previdenza Sociale (1933), e quindi dall’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (INPS), e comunque per effetto della riforma dei criteri di calcolo della pensione sociale.

Quali sono i coefficienti di capitalizzazione da utilizzare per la liquidazione del danno?

Per ovviare agli inconvenienti sopra descritti – precisano gli Ermellini – ovviamente il giudice di merito resta libero di adottare i coefficienti di capitalizzazione che ritiene preferibili, purché aggiornati e scientificamente corretti. Potranno a tal fine essere adottati – concludono i giudici di piazza Cavour – i coefficienti di capitalizzazione approvati con provvedimenti normativi vigenti per la capitalizzazione delle rendite previdenziali o assistenziali, come pure i coefficienti elaborati dalla dottrina per la specifica materia del risarcimento del danno aquiliano: a mero titolo indicativo, quelli diffusi dal Consiglio Superiore della Magistratura ed allegati agli Atti dell’Incontro di studio per i magistrati, svoltosi a Trevi il 30 giugno – 1 luglio 1989 (in Nuovi orientamenti e nuovi criteri per la determinazione del danno, Quaderni del CSM, 1990, n. 41, pp. 127 e ss.). Da qui la cassazione, sul punto, della sentenza impugnata ed il rinvio alla Corte territoriale la quale, nel riesaminare il caso, applicherà il seguente

Principio di diritto:

Il danno permanente da incapacità di guadagno non può essere liquidato in base ai coefficienti di capitalizzazione approvati con r.d. 9.10.1922 n. 1403, i quali a causa dell’innalzamento della durata media della vita e dell’abbassamento dei saggi di interesse non garantiscono l’integrale ristoro del danno, e non sono perciò consentiti dalla regola di integralità del risarcimento di cui all’art. 1223 c.c..

Una breve riflessione

La sentenza in rassegna offre diversi interessanti spunti di riflessione.

  • Uno riguarda l’utilizzo delle tabelle milanesi per la liquidazione del danno non patrimoniale. Viene sancito non un obbligo di utilizzo di tali tabelle, bensì un onere di motivazione in caso di utilizzo di tabelle diverse.
  • L’altro spunto riguarda l’adozione dei coefficienti di capitalizzazione per la liquidazione del danno permanente da perdita della capacità di guadagno.

La Suprema Corte sviluppa analiticamente quattro punti in forza dei quali l’utilizzo dei coefficienti di capitalizzazione approvati con r.d. 9.10.1922 n. 1403 non soddisfa la regola di integralità del risarcimento di cui all’articolo 1223 del codice civile. Tra detti motivi vi è la notevole variazione della speranza di vita media e la notevole variazione del tasso degli interessi legali.

I giudici di legittimità, dunque, non impongono ai giudici di merito l’utilizzo di un criterio rigido, anche se suggeriscono alcuni strumenti ritenuti validi. Essi però evidenziano che l’utilizzo di qualsivoglia criterio deve soddisfare, per l’appunto, la detta regola di integralità del risarcimento.

Un principio, quella dettato dalla Suprema Corte, a tutela del danneggiato per il caso di perdita della capacità di guadagno, che tende a reintegrarlo dell’effettivo danno patito.

A margine, nel condividere pienamente il principio dettato dalla Suprema Corte, non può non rilevarsi come appaia veramente singolare che, a dispetto della continua proliferazione di leggi e provvedimenti normativi in Parlamento, possano ritenersi ancora oggi vigenti e quindi utilizzabili dei coefficienti di capitalizzazione formulati sulla base di dati statistici raccolti all’inizio del secolo scorso. La Suprema Corte ritiene che tali coefficienti debbano ritenersi implicitamente abrogati. Ma, forse, una abrogazione espressa e, perché no, una sostituzione o aggiornamento espressi potrebbero evitare la permanenza di incertezze e, di conseguenza, la instaurazione di lunghi e costosi contenziosi.

avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)

managing partner at clouvell (www.clouvell.com)

 

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