Società di capitali: bilancio di esercizio e delibera di approvazione nulli in assenza di chiarezza e precisione

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Il bilancio d’esercizio di una società di capitali, che violi i precetti di chiarezza e precisione dettati dall’art. 2423, comma secondo, cod. civ., è illecito, ed è quindi nulla la deliberazione assembleare con cui esso è stato approvato, non soltanto quando la violazione determini una divaricazione tra il risultato effettivo dell’esercizio, o la rappresentazione complessiva del valore patrimoniale della società, e quello del quale il bilancio dà invece contezza, ma anche in tutti i casi in cui dal bilancio stesso e dai relativi allegati, ivi compresa la relazione, non sia possibile desumere l’intera gamma delle informazioni che la legge vuole siano fornite per ciascuna delle singole poste iscritte; allo scopo di realizzare il diritto di informazione, che è in rapporto di strumentalità con il principio di chiarezza, gli amministratori devono soddisfare l’interesse del socio ad una conoscenza concreta dei reali elementi contabili recati dal bilancio, e sono, quindi, perfino obbligati a rispondere alla domanda d’informazione che sia pertinente e non trovi ostacolo in oggettive esigenze di riservatezza, in modo da dissipare le insufficienze, le incertezze e le carenze di chiarezza in ordine ai dati di bilancio ed alla relativa relazione.

Lo ha affermato la Suprema Corte di Cassazione – sezione prima civile – con sentenza n. 4120 del 2 marzo 2016

Società di capitali: bilancio di esercizio e delibera di approvazione nulli in assenza di chiarezza e precisione

Società di capitali: bilancio di esercizio e delibera di approvazione nulli in assenza di chiarezza e precisione

Il caso

Con atto di citazione notificato il 27 febbraio 2008, una società ed una persona fisica convenivano in giudizio, dinanzi al Tribunale, altra società chiedendo annullarsi – per invalidità derivata da quella relativa alle precedenti delibere del 21 novembre, del 25 novembre 2005 e del 27 novembre 2006, a loro volta adottate in violazione degli artt. 2377 e 2423 cod. civ. e 32 dello statuto sociale – la delibera in data 29 novembre 2007, nella quale era stato approvato il bilancio al 31 luglio 2007.

La sentenza di primo grado

Con sentenza n. 812/2009 depositata il 6 marzo 2009, il Tribunale adito rigettava la domanda attorea, disattendendo, peraltro, anche la domanda di risarcimento danni ex art. 96 cod. proc. civ., proposta dalla convenuta.

L’appello

Avverso tale decisione proponevano appello entrambi gli attori, che veniva rigettato nel merito, essendo accolto solo in relazione alla parziale compensazione delle spese del giudizio di primo grado, dalla Corte di Appello di Brescia, con sentenza n. 54/2015, depositata il 15 gennaio 2015, e notificata il 9 febbraio 2015. Con tale pronuncia il giudice di seconde cure riteneva inammissibili ex art. 342 cod. proc. civ. (nel testo applicabile ratione temporis), perché del tutto generici, i motivi di appello concernenti la domanda di nullità del bilancio al 31 luglio 2007, approvato con l’impugnata delibera del 29 novembre 2007, in relazione alla denunciata mancanza di chiarezza e veridicità, e disattendeva la censura relativa alla liquidazione delle spese processuali operata dal giudice di primo grado. La medesima pronuncia rigettava, altresì, l’appello incidentale della società convenuta finalizzato ad ottenere la condanna della società attrice al risarcimento dei danni ex art. 96 cod. proc. civ. Da qui il ricorso per cassazione.

I motivi di ricorso

Con il primo motivo di ricorso, gli originari attori denunciano la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 cod. proc. civ. I ricorrenti si dolgono del fatto che la Corte di Appello abbia omesso di pronunciarsi sulla istanza degli appellanti di sospensione del giudizio, in attesa dell’esito degli altri due procedimenti pendenti dinanzi a questa Corte, ed aventi ad oggetto i bilanci al 2005 ed al 2006.

Per la Suprema Corte il motivo è inammissibile.

Osservano gli Ermellini, infatti, che il dovere del giudice di pronunciare su tutta la domanda, ai sensi dell’art. 112 cod. proc. civ., va riferito appunto alla domanda, e dunque all’istanza con la quale la parte chiede l’emissione di un provvedimento giurisdizionale in ordine al diritto sostanziale dedotto in giudizio. Ne discende – proseguono i giudici di piazza Cavour – che non è configurabile un vizio di infrapetizione per l’omessa adozione da parte del giudice di un provvedimento di carattere ordinatorio, come quello relativo alla sospensione necessaria del giudizio, ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ. (cfr. Cass. 5246/2006; 15353/2010).

Con il secondo motivo di ricorso, i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione dell’art. 342 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ. Avrebbe errato la Corte di Appello, a parere degli istanti, nel ritenere che il primo motivo di gravame – concernente la statuizione con la quale il Tribunale aveva ritenuto inammissibile la domanda di nullità del bilancio al 31 luglio 2007, approvato con l’impugnata delibera del 29 novembre 2007, per non avere gli attori indicato le poste di bilancio censurate e le conseguenze patrimoniali per loro negative che sarebbero derivate dall’approvazione di detto bilancio – fosse da considerarsi inammissibile per difetto di specificità, ai sensi dell’art. 342 cod. proc. civ. Ed infatti, i motivi di nullità del bilancio sarebbero stati, per contro, indicati dagli attori nell’atto di citazione di primo grado, e riproposti nell’atto di appello, oltre che ribaditi nella comparsa conclusionale, in tal modo proponendosi dagli appellanti una specifica censura alla decisione emessa in prime cure. Sicchè il rinvio all’atto di citazione non poteva neppure essere inteso, nel caso di specie, come un mero richiamo di tale atto per relationem.

Anche tale motivo viene ritenuto infondato

Osserva la Corte regolatrice, infatti, che, quando col ricorso per cassazione venga denunciata la violazione dell’art. 342 cod. proc. civ. (nel testo vigente “ratione temporis”, anteriore alle modifiche apportate dal d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. nella legge 7 agosto 2012, n. 134) in ordine alla specificità dei motivi di appello, il giudice di legittimità non deve limitare la propria cognizione all’esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma è investito del potere di esaminare direttamente gli atti e i documenti sui quali il ricorso si fonda. La Corte di Cassazione può, pertanto, ritenere assolto l’onere di specificazione dei motivi d’appello solo quando il rinvio al contenuto in un atto del giudizio di primo grado (operato dall’appellante) non abbia costituito un mero richiamo “per relationem”, ma si sia coniugato con l’espressa censura delle argomentazioni poste a fondamento dell’impugnata sentenza (cfr. Cass.S.U. 8077/2012; Cass. 15071/2012; 25308/2014; 16164/2015).

Nel caso di specie – proseguono gli Ermellini – dall’esame dell’atto di citazione di primo grado – trascritto nel ricorso – si evince che i motivi della nullità del bilancio al 31 luglio 2007, erano stati “indicati (….) nella invalidità dei bilanci immediatamente precedenti”, atteso il principio di continuità, in forza del quale le poste illegittime di un bilancio rappresentano il punto di partenza di quelle del bilancio successivo, con conseguenti ripercussioni sugli utili spettanti ai soci. Per tale ragione, era stata, altresì, richiesta dagli appellanti la sospensione del presente giudizio, in attesa della definizione dei quelli incardinati in relazione ai bilanci precedenti.

Ciò posto, a parere dei giudici di piazza Cavour, è certamente condivisibile l’assunto del giudice di appello, laddove afferma che la censura alla sentenza di prime cure – che aveva dichiarato inammissibile per genericità la domanda di nullità del bilancio approvato dall’impugnata delibera – non poteva considerarsi conforme alla previsione di cui all’art. 342 cod. proc. civ., per difetto di specificità del motivo di appello, proposto mediante il mero rinvio alla citazione di prime cure, sul punto del tutto generica. La doglianza degli odierni ricorrenti ed originari attori si incentrava, invero, sulla deduzione, non di specifiche ragioni di nullità del bilancio al 31 luglio 2007, bensì esclusivamente sulla pretesa nullità dei bilanci precedenti, che si rifletterebbe negativamente su quello successivo, in forza di principio di continuità dei bilanci. E tuttavia, tali dedotte nullità non avevano ancora costituito oggetto di un accertamento definitivo in sede giudiziale, tanto che gli originari attori avevano, altresì, richiesto la sospensione del presente giudizio in attesa della definizione dei giudizi precedenti.

Il principio di continuità del bilancio di esercizio.

Orbene, osservano gli Ermellini al riguardo che il bilancio di esercizio di una società per azioni, in forza del principio della cosiddetta continuità, deve partire dai dati di chiusura del bilancio dell’anno precedente, anche nel caso in cui l’esattezza e la legittimità di questi ultimi siano state poste in discussione in sede contenziosa, e siano state negate con sentenza non passata in giudicato. Infatti, solo il passaggio in giudicato di quella sentenza fa sorgere il dovere degli amministratori di apporre al bilancio contestato le variazioni imposte dal comando giudiziale, e, quindi, di modificare conseguenzialmente i dati di partenza del bilancio successivo (Cass. 2379/1977).

Se ne deve inferire – concludono sul punto i giudici di legittimità – che, l’avere gli appellanti dedotto – mediante rinvio tout court all’atto di citazione di primo grado – la nullità del bilancio al 2007, per avere le relative appostazioni origine e fondamento nei dati del bilancio precedente, oggetto di accertamento giudiziale non conclusosi con sentenza definitiva, non vale di certo ad integrare, come correttamente ha ritenuto la Corte di Appello, un motivo specifico di gravame ex art. 342 cod. proc. civ. avverso la sentenza che aveva rigettato la domanda di nullità del bilancio al 2007.

Con il terzo motivo di ricorso, i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione degli artt. 342 cod. proc. civ. e 2423 cod. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ. I ricorrenti lamentano che la Corte territoriale abbia erroneamente considerato inammissibile poiché generica – e, quindi, in violazione dell’art. 342 cod. proc. civ. (nel testo applicabile ratione temporis) – la censura, proposta con il secondo motivo di appello, relativa alla chiarezza e veridicità del bilancio al 31 luglio 2007, e che abbia ritenuto, altresì, infondato tale motivo di gravame, sull’erroneo presupposto che la disposizione di cui all’art. 2423 cod. civ. non potrebbe trovare applicazione nel caso concreto, potendo le condotte poste in essere dagli amministratori costituire, al più, materia per un’azione di responsabilità. Per contro, ad avviso degli istanti, i fatti denunciati con il motivo di appello in questione avrebbero chiaramente e specificamente evidenziato la violazione dei suddetti principi di chiarezza, correttezza e veridicità del bilancio, sanciti dall’art. 2423, comma 2, cod. civ.

Il motivo viene ritenuto fondato.

Evidenziano gli Ermellini che dall’esame dell’impugnata sentenza (p. 6) si evince, infatti, che nel febbraio 2006 l’amministratore aveva segnalato di essere stato informato dalla Guardia di Finanza di una truffa perpetrata, con danno valutato in circa 900.000/1.000.000 di euro. Nel marzo del 2006 la Guardia di Finanza aveva, invece, stimato il danno nella ben più consistente somma di € 3.000.000,00. Nel bilancio al 31 luglio 2006, la relazione aveva, nondimeno, indicato “che la truffa/furto era stata assorbita dal bilancio”. Nel successivo bilancio al 31 luglio 2007, invece, “la relazione riportava che era stato affidato ad un legale civilista di avviare procedura per il recupero del credito derivante dal danno”, non essendo l’azienda in grado di quantificarlo.

Ciò posto – proseguono i giudici di legittimità – è certamente erroneo l’assunto del giudice di appello, sia – sul piano dell’ammissibilità del motivo di gravame – in ordine al preteso difetto di specificità della censura, che, per contro, è da ritenersi specifica e dettagliata, anche in relazione agli elementi fattuali posti a sostegno della censura, sia – nel merito della doglianza – con riferimento all’operata esclusione della violazione dell’art. 2423 cod. civ. Ed invero – secondo il costante insegnamento della Corte di legittimità – il bilancio d’esercizio di una società di capitali, che violi i precetti di chiarezza e precisione dettati dall’art. 2423, comma secondo, cod. civ., è illecito, ed è quindi nulla la deliberazione assembleare con cui esso è stato approvato, non soltanto quando la violazione determini una divaricazione tra il risultato effettivo dell’esercizio, o la rappresentazione complessiva del valore patrimoniale della società, e quello del quale il bilancio dà invece contezza, ma anche in tutti i casi in cui dal bilancio stesso e dai relativi allegati non sia possibile desumere l’intera gamma delle informazioni che la legge vuole siano fornite per ciascuna delle singole poste iscritte (cfr. Cass.S.U. 27/2000; Cass. 8204/2004; 4874/2006). E non può revocarsi in dubbio – concludono gli Ermellini – che tra i suddetti allegati un ruolo essenziale, ai fini della chiarezza delle informazioni desumibili dal bilancio, sia svolto proprio dalla relazione allegata al documento contabile. Allo scopo di realizzare il diritto di informazione, che è in rapporto di strumentalità con il principio di chiarezza, gli amministratori devono, invero, soddisfare l’interesse del socio ad una conoscenza concreta dei reali elementi contabili recati dal bilancio, e sono, quindi, perfino obbligati a rispondere alla domanda d’informazione che sia pertinente e non trovi ostacolo in oggettive esigenze di riservatezza, in modo da dissipare le insufficienze, le incertezze e le carenze di chiarezza in ordine ai dati di bilancio ed alla relativa relazione (Cass. 8001/2004; 11554/2008).

Per converso, nel caso concreto, a parere dei giudici di piazza Cavour – la relazione degli amministratori ai bilanci del 2006 e del 2007 si è concretata nella esposizione di dati contraddittori, incerti e variabili, nonché difformi da quanto accertato dalla Guardia di Finanza, in merito all’entità della truffa subita dalla società. Di più, dall’esame del motivo di appello respinto dalla Corte territoriale si evince, altresì, che – a specifica richiesta di chiarimenti in proposito, in sede assembleare – non veniva data alcuna risposta; sicchè anche in quella sede non era possibile ai soci di minoranza attingere dall’organo amministrativo chiarimenti in ordine ad un evento suscettibile, come è del tutto evidente, di rilevanti ricadute sulla consistenza del magazzino, anche – e soprattutto – in relazione al prodotto finito.

Se ne deve inferire – conclude la Suprema Corte – che la Corte di Appello non ha affatto inteso che la censura in esame era finalizzata – questa volta mediante una contestazione specifica, pertinente al bilancio impugnato – ad evidenziare la mancanza di chiarezza e precisione di detto bilancio, ed ha, di conseguenza, erroneamente respinto il relativo motivo di appello. La decisione assunta si traduce, pertanto, in una palese violazione del disposto di cui all’art. 2423, comma 2, cod. civ. Da qui l’accoglimento del motivo, la cassazione dell’impugnata sentenza, con rinvio alla Corte di Appello in diversa composizione, che dovrà procedere a nuovo esame della controversia facendo applicazione dei seguenti principi di diritto:

I principi di diritto enunciati.

“Il bilancio d’esercizio di una società di capitali, che violi i precetti di chiarezza e precisione dettati dall’art. 2423, comma secondo, cod. civ., è illecito, ed è quindi nulla la deliberazione assembleare con cui esso è stato approvato, non soltanto quando la violazione determini una divaricazione tra il risultato effettivo dell’esercizio, o la rappresentazione complessiva del valore patrimoniale della società, e quello del quale il bilancio dà invece contezza, ma anche in tutti i casi in cui dal bilancio stesso e dai relativi allegati, ivi compresa la relazione, non sia possibile desumere l’intera gamma delle informazioni che la legge vuole siano fornite per ciascuna delle singole poste iscritte; allo scopo di realizzare il diritto di informazione, che è in rapporto di strumentalità con il principio di chiarezza, gli amministratori devono soddisfare l’interesse del socio ad una conoscenza concreta dei reali elementi contabili recati dal bilancio, e sono, quindi, perfino obbligati a rispondere alla domanda d’informazione che sia pertinente e non trovi ostacolo in oggettive esigenze di riservatezza, in modo da dissipare le insufficienze, le incertezze e le carenze di chiarezza in ordine ai dati di bilancio ed alla relativa relazione”.

Una breve riflessione

Ci troviamo di fronte ad una sentenza molto interessante perché delinea in maniera abbastanza chiara e netta quale sia l’onere di informazione e di trasparenza a carico degli amministratori di una società per azioni e, soprattutto, quali debbano essere i requisiti del bilancio e dei relativi allegati.

In buona sostanza, tutto deve rispondere alla esigenza di mettere in condizione i soci di poter ricostruire l’andamento societario al fine di consentire di conoscere l’intera gamma delle informazioni che la legge vuole siano fornite per ciascuna delle singole poste iscritte.

E la Suprema Corte chiarisce che il diritto di informazione è in rapporto di strumentalità con il principio di chiarezza.

Il bilancio di una società, unitamente agli allegati, deve, in buona sostanza, raccontare lo stato di salute della società stessa e consentire ai soci di poter conoscere eventuali “patologie”.

In questa ottica, il bilancio rappresenta il momento di sintesi della vita societaria. Non è solo un documento che deve sussistere per il diritto, ma è soprattutto un documento che ha una fondamentale funzione sostanziale, e non solo formale.

L’articolo 2423 comma 2° del codice civile recita: “Il bilancio deve essere redatto con chiarezza e deve rappresentare in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria della società e il risultato economico dell’esercizio”.

Dunque, col termine “chiarezza” il legislatore ha voluto esprimere e sintetizzare i principi richiamati dalla Suprema Corte con la sentenza in rassegna.

E d’altronde, a ben pensarci, senza chiarezza non vi può essere vera conoscenza. E senza vera conoscenza non vi può essere controllo da parte del socio sull’operato degli altri soci e degli amministratori.

avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)

managing partner at clouvell (www.clouvell.com)

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