Corte Suprema di Cassazione – sezione lavoro – sentenza n. 18223 del 17 settembre 2015

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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 30.12.08, la corte d’appello di Salerno, in parziale riforma della sentenza del 17.1.07 del tribunale della stessa sede, ha riconosciuto il demansionamento del lavoratore (Omissis), dipendente della Banca in epigrafe, ritenendo che le mansioni allo stesso assegnate all’esito del trasferimento da (Omissis) a (Omissis) non fossero riconducibili alla qualifica ricoperta di “quadro direttivo di secondo livello -assistente ai finanziamenti”; la sentenza ha invece confermato la decisione di prime cure in ordine alla legittimità del trasferimento del lavoratore.

La Banca ricorre avverso tale sentenza per un motivo illustrato da memoria; il lavoratore è rimasto intimato.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con unico motivo di ricorso si deduce vizio di motivazione della sentenza impugnata per avere la stessa ritenuto il demansionamento del lavoratore senza accertare in fatto ciò che il lavoratore facesse in concreto al di là della qualifica assegnata, omettendo di comparare le ultime mansioni con quelle concretamente svolte in precedenza.

Il ricorso è infondato.

La Corte d’appello, con giudizio ampiamente e correttamente motivato, ha accertato sulla base delle prove raccolte che al ricorrente a seguito della destinazione alla filale di (Omissis) non sono mai state assegnate mansioni riconducibili alla qualifica di assistente ai finanziamenti, essendo risultato che il lavoratore non aveva alcuna possibilità di fornire assistenza e consulenza alla clientela in merito ai finanziamenti, né aveva potuto realizzare eventuali operazioni connesse alle proposte di finanziamenti ed alla revisione degli affidamenti in scadenza.

La pretesa delle banca in ordine alla legittimità di assegnazione di mansioni inferiori alla qualifica ma equivalenti (asseritamente) alle precedentemente svolte è infondata.

Questa Corte (Sez. L, Sentenza n. 15010 del 14/06/2013) ha infatti precisato che, ai fini della verifica del legittimo esercizio dello “ius variandi” da parte del datore di lavoro, deve essere valutata, dal giudice di merito – con giudizio di fatto incensurabile in cassazione ove adeguatamente motivato – la omogeneità tra le mansioni successivamente attribuite e quelle di originaria appartenenza, sotto il profilo della loro equivalenza in concreto rispetto alla competenza richiesta, al livello professionale raggiunto ed alla utilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal dipendente.

Ciò non vuol dire, naturalmente, che il giudice debba operare solo un confronto tra le mansioni attualmente assegnate e quelle precedentemente affidate, occorrendo preliminarmente un confronto tra le mansioni effettuate e la qualifica posseduta, perché è con riferimento a questa che va verificato se vi sia dequalificazione e, solo in caso di corrispondenza delle mansioni con la qualifica, può procedersi alla verifica -necessariamente successiva- di corrispondenza tra le mansioni pregresse e le successive, al fine di escludere anche un demansionamento.

Nel rapporto di lavoro infatti non vi è solo un divieto di demansionamento del lavoratore, ossia divieto di attribuzione di mansioni inferiori alle pregresse, ma prima ancora un divieto di dequalificazione, ossia di attribuzione di mansioni inferiori alla qualifica: l’art. 2103 c.c. infatti prevede non solo il diritto a svolgere mansioni non inferiori alle ultime svolte, ma prima ancora il diritto del lavoratore di vedersi assegnate le mansioni per le quali è stato assunto (ossia proprie della qualifica pattuita).

Oltre a ciò, va evidenziato che l’onere della prova della rispondenza delle mansioni rispetto alla qualifica posseduta è a carico del datore di lavoro, trattandosi di responsabilità contrattuale: questa Corte ha infatti già chiarito (Sez. L, Sentenza n. 4766 del 06/03/2006) che, allorquando da parte di un lavoratore sia allegata una dequalificazione o venga dedotto un demansionamento riconducibili ad un inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell’art. 2103 cod. civ. è su quest’ultimo che incombe l’onere di provare l’esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto di qualsiasi dequalificazione o demansionamento, ovvero attraverso la prova che l’una o l’altro siano stati giustificati dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari o, comunque, in base al principio generale risultante dall’art. 1218 cod. civ., da un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.

Nella specie il detto onere probatorio non risulta esser stato soddisfatto.

Nulla per spese, essendo la parte vincitrice rimasta intimata.

p.q.m.

rigetta il ricorso; nulla per spese.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 21 maggio 2015.

 

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