Appello civile tra specificità ed autosufficienza

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L’appello, nei limiti dei motivi di impugnazione, è un giudizio sul rapporto controverso, e non sulla correttezza della sentenza impugnata. Ne consegue che rispetto all’atto d’appello non è concepibile alcun requisito di autosufficienza, ma solo di specificità, e che pertanto l’appellante che intenda dolersi del rigetto in primo grado delle sue istanze istruttorie non ha l’onere di trascriverle nell’atto d’appello.

La specificità dei motivi d’appello presuppone la specificità della motivazione della sentenza impugnata, sicché ove manchi quest’ultima, dall’appellante non è esigibile altro onere che riproporre l’istanza o la domanda immotivatamente rigettata.

Lo ha affermato la Suprema Corte di Cassazione – sezione terza civile – con sentenza n. 6978 del giorno 11 aprile 2016

Il caso

Appello civile tra specificità ed autosufficienza

Appello civile tra specificità ed autosufficienza

 

Una madre diede alla luce, in un ospedale, una bimba nata morta. Dopo alcuni anni, lei ed il marito convennero dinanzi al Tribunale i medici e l’Azienda Sanitaria chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti in conseguenza del fatto di cui sopra.

I convenuti si costituirono negando la propria responsabilità, e comunque chiedendo di essere garantiti dai rispettivi assicuratori che vennero dunque chiamati in causa.

La sentenza di primo grado

Il Tribunale rigettò la domanda, ritenendo insussistente la colpa dei sanitari.

La sentenza di appello

La Corte d’appello di Roma rigettò il gravame.

Da qui il ricorso per cassazione dei danneggiati al quale resiste con controricorso uno dei due medici.

I motivi di ricorso

Col primo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano il vizio di nullità processuale, ai sensi dell’art. 360, n. 4, c.p.c.. Deducono di avere domandato, in primo grado, la condanna dei sanitari e dell’ente convenuto sia per imperita esecuzione della prestazioni da essi dovuta, sia per violazione dell’obbligo di informare la gestante sulle sue condizioni, e di riceverne un valido consenso all’atto medico. Soggiungono che la Corte d’appello ha ritenuto tardiva tale domanda sebbene ritualmente formulata, ed avrebbe in tal modo violato l’art. 345 c.p.c.

Col secondo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano “la nullità della sentenza ex art. 360 n. 5 c.p.c.”, per avere erroneamente trascurato di esaminare il “fatto decisivo” rappresentato dalla violazione, da parte dei sanitari, dell’obbligo di informare la paziente circa i rischi connessi alle scelte terapeutiche.

Secondo gli Ermellini, nella parte in cui lamenta il vizio di “omesso esame d’un fatto decisivo”, ex art. 360 n. 5 c.p.c., il motivo è manifestamente inammissibile. Il “fatto” di cui è menzione nell’art. 360 n. 5 c.p.c., infatti, è rappresentato da una circostanza costitutiva della domanda o dell’eccezione, non concepibile rispetto alla prospettazione di un error in procedendo, quale è il giudizio di tardività d’una domanda.

Inoltre, sempre secondo i giudici di piazza Cavour, nella parte in cui lamenta la nullità processuale, il motivo è infondato.

Quando una domanda di danno possa ritenersi compiutamente formulata.

Secondo i giudici di piazza Cavour, perché una domanda di danno (contrattuale o extracontrattuale) possa ritenersi compiutamente formulata, non è sufficiente che l’attore si limiti a domandare la condanna del convenuto al risarcimento. E’, al contrario, è necessario che l’attore alleghi in modo chiaro e compiuto:

  • a) in che cosa sia consistita la condotta che si assume illecita;
  • b) perché essa deve dirsi colposa;
  • c) quale danno ne sia derivato.

Tanto si desume – proseguono gli Ermellini – dall’art. 163, nn. 3 e 4, c.p.c., là dove richiede che l’atto di citazione contenga “la determinazione della cosa oggetto della domanda” e “l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda”. La “cosa” oggetto della domanda è il risarcimento richiesto; i “fatti” sono rappresentati dalla condotta materiale che si ascrive al responsabile; gli “elementi” di diritto sono rappresentati dalle norme che imponevano al responsabile una condotta alternativa, che mancò.

Il contenuto della domanda per violazione dell’obbligo di informazione.

Alla stregua di tali basilari principi – a detta dei giudici di legittimità – chi volesse invocare in giudizio la responsabilità d’un medico per violazione dell’obbligo di informare, dovrebbe quindi non solo descrivere la condotta colposa, ma anche spiegare:

  • – quale danno ne sia derivato;
  • – quale sarebbe stata la scelta che avrebbe compiuto il paziente se fosse stato correttamente informato.

Nel caso di specie, gli attori avevano dedotto nell’atto di citazione, che “i sanitari non comunicarono alcunché alla (gestante] (…), né (…) provvidero a fornire una diagnosi in ordine alla situazione clinica (…) e alla necessità e ai rischi connessi all’intervento di taglio cesareo”, senza descrivere compiutamente, in nessuna altra parte dell’atto di citazione, la violazione colposa, da parte dei convenuti, dell’obbligo di informare la gestante sulla opportunità e/o sui rischi di eseguire un parto cesareo.

Per gli Ermellini, pertanto, il fuggevole accenno sopra trascritto non basta a ritenere correttamente dedotta in giudizio una colpa per violazione dell’obbligo di informare, e la sottesa domanda di risarcimento. Ciò per due ragioni.

La prima ragione è che di quella domanda mancavano sia l’esposizione della “cosa” che ne formava oggetto (ovvero il danno causato dall’omessa informazione); sia l’indicazione dei “fatti” posti a suo fondamento (ovvero la scelta alternativa che la paziente avrebbe potuto compiere); sia l’indicazione degli “elementi” di diritto che la sorreggevano (ovvero la regola di condotta che si assumeva violata dai sanitari).

La seconda ragione è che qualsiasi domanda processuale, per potersi dire correttamente formulata (alla luce del combinato disposto degli artt. 163, nn. 3 e 4, ed 88 c.p.c.), deve essere espressa in modo chiaro ed inequivoco.

La domanda formulata dall’attore concorre a determinare il thema decidendum, e non può ammettersi che per delimitare quest’ultimo il convenuto prima, ed il giudice poi, debbano arrovellarsi a sciogliere le cabale e le ambiguità d’una citazione oscura od ermetica.

Alla luce di quanto precede deve concludersi che:

  • (a) la domanda non può dirsi nemmeno formulata, se dall’esame complessivo dell’atto di citazione non emergano né gli elementi essenziali di cui all’art. 163, nn. 3 e 4 c.p.c., né la volontà dell’attore di proporla;
  • (b) se dall’esame complessivo dell’atto di citazione possa ricavarsi la volontà dell’attore di proporre la domanda, ma ne siano incerti presupposti e contenuti, il giudice ha l’obbligo di dichiarare la nullità della citazione e fissare all’attore un termine per emendarla.

Nel caso di specie – concludono i giudici di legittimità – per quanto detto, sussiste l’ipotesi sub (a), né i ricorrenti hanno mai prospettato la violazione dell’art. 164 c.p.c., dolendosi che non sia stato loro fissato alcun termine per sanare la nullità della citazione.

Passando, invece all’esame del terzo, quarto e quinto motivo del ricorso principale, essi vengono ritenuti fondati.

Con questi motivi i ricorrenti lamentano sotto diversi profili (nullità della sentenza, illogicità della motivazione, violazione di legge) la mancata ammissione, da parte della Corte d’appello, delle richieste istruttorie da essi formulate e vòlte a dimostrare la colpa per negligenza dei convenuti.

Col terzo motivo di ricorso deducono che le loro richieste istruttorie sarebbero state rigettate dalla Corte d’appello con motivazioni tra loro inconciliabili, per avere il giudice del gravame dapprima ritenuto che il motivo d’appello, sul punto, era inammissibile, e poi sostenuto che le prove richieste erano comunque irrilevanti. Sostengono che la decisione avrebbe, in tal modo, violato l’art. 132 c.p.c..

Col quarto motivo di ricorso deducono che la Corte d’appello ha erroneamente ritenuto generico il motivo d’appello col quale gli appellanti si erano doluti del rigetto delle prove da loro richieste, sebbene la totale mancanza di motivazione da parte del Tribunale su tale questione non consentiva di motivare in modo “specifico” la relativa doglianza. Sostengono che la decisione avrebbe, in tal modo, violato l’art. 342 c.p.c..

Col quinto motivo di ricorso, infine, i ricorrenti lamentano che la Corte d’appello abbia genericamente dichiarato “inammissibili e irrilevanti” le prove da essi richieste, senza esaminarle nel merito. Sostengono che la decisione avrebbe, in tal modo, violato l’art. 132 c.p.c..

Secondo i giudici della Suprema Corte, gli attori, nel giudizio di primo grado, avevano sostenuto che la partoriente, nelle ore precedenti il parto, venne lasciata sola e priva di assistenza, sebbene le sue condizioni la richiedessero.

Avevano chiesto di provare per testi, a sostegno di tale domanda, la circostanza: che la mattina parto la partoriente non veniva sottoposta ad alcun monitoraggio, non veniva visitata, e nonostante le ripetute ed insistenti richiesta di essere esaminata, la gestante era totalmente ignorata.

Il Tribunale su tale istanza istruttoria non provvide, e su tale questione gli odierni ricorrenti proposero appello.

Le due rationes decidenti della Corte d’appello per motivare il rigetto del motivo di gravame.

La Corte d’appello, dopo avere ritenuto che il Tribunale avesse non già omesso di pronunciarsi sull’istanza istruttoria, ma l’avesse implicitamente rigettata, ha rigettato il motivo di gravame sulla base di due rationes decidendi.

Per un verso, la Corte d’appello ha – implicitamente, ma chiaramente – ritenuto inammissibile il motivo d’appello concernente la prova per testi, sul presupposto che, essendo il giudizio d’appello un “controllo della decisione di primo grado”, gli appellanti avevano l’onere di indicare i mezzi di prova della cui mancata ammissione si doleva, spiegare “dove si annidasse l’errore del primo giudicante”, e dimostrare la rilevanza potenziale della prova nell’economia della decisione.

Per altro verso, la Corte d’appello ha soggiunto che comunque “alla stregua delle produzioni documentali e della istruttoria espletata le richieste istruttorie [degli appellanti] erano irrilevanti ovvero inammissibile ai fini del decidere”.

Per gli Ermellini, ambedue le suddette rationes decidendi sono viziate in diritto.

Innanzitutto, chiariscono i giudici di piazza Cavour, che erronea è l’affermazione secondo cui, essendo il giudizio d’appello una revisio prioris instantiae, gli appellanti avrebbero dovuto, a pena d’inammissibilità:

  • (a) trascrivere i capitoli di prova del cui rigetto intendevano dolersi;
  • (b) censurare in modo specifico il preteso errore del primo giudice;
  • (c) esporre l’interesse all’impugnazione, e quindi l’esito che il giudizio avrebbe avuto se le prove da essi richieste fossero state ammesse.

La Corte d’appello – a parere della Corte regolatrice – mostra dunque di ritenere che il giudizio d’appello abbia ad oggetto non il rapporto dedotto in giudizio, ma la sentenza di primo grado (p. 4, terzo capoverso, della sentenza impugnata). Qualifica quindi il giudizio d’appello come revisio prioris instantiae, e ne trae la conseguenza che l’atto d’appello dovesse essere “autosufficiente” (scilicet, trascrivere i capitoli di prova della cui mancata ammissione gli appellanti si dolevano).

Il principio dell’appello quale revisio prioris instantiae.

Queste affermazioni della Corte capitolina – secondo i giudici di legittimità – sono erronee perché si fondano su un presupposto erroneo: ovvero il fraintendimento del principio secondo cui l’appello costituisce una revisio prioris instantiae.

La natura del giudizio di appello

Il giudizio d’appello, sin da quando entrò in vigore il vigente codice di procedura civile, è sempre stato una revisio prioris instantiae. Tale sua caratteristica era resa evidente – tra l’altro – sia dall’obbligo di specificità dei motivi d’appello (art. 342 c.p.c., nel testo originario), sia dal principio di acquiescenza alle parti della sentenza non appellate (art. 329 c.p.c.).

Il legislatore del 1940

Chiariscono i giudici di piazza Cavour come la concezione del giudizio d’appello quale revisio prioris instantiae fu espressamente voluta dal legislatore del 1940: nel sistema del codice del 1865, infatti, nel quale l’appello devolveva al giudice di secondo grado la cognizione piena della causa, a prescindere dai mezzi di impugnazione, il giudizio d’appello finiva per “ridurre quello di primo grado ad un semplice saggio preliminare”, riservando la trattazione dei “problemi più salienti e le prove più importanti” alla fase d’appello (così la Relazione del Guardasigilli al sul progetto definitivo, § 244).

Le riforme del 1990-1995-2012 hanno accentuato tale aspetto, ma non lo hanno affatto introdotto.

E’, pertanto erroneo – prosegue la Suprema Corte – affermare che il giudizio d’appello abbia oggi una natura od un oggetto diverso da quello che aveva nel 1940. Revisio prioris instantiae è oggi, e revisio prioris instantiae era allora (come affermato già, tra le tante, da Sez. 3, Sentenza n. 2229 del 13/08/1966, Rv. 324357).

Stabilito dunque che l’oggetto del giudizio d’appello non è affatto mutato, sempre secondo la Suprema Corte l’attribuzione al giudizio d’appello della natura di revisio prioris instantiae non vuol affatto dire che esso costituisca un giudizio sulla sentenza di primo grado, e non sul rapporto.

L’appello resta un giudizio di merito pieno, sul rapporto dedotto in giudizio, sia pure nei limiti dei motivi proposti dall’appellante. La Corte d’appello, entro tali limiti, è chiamata a stabilire se la pretesa dell’attore sia fondata, non se il Tribunale abbia correttamente applicato la legge.

I precedenti delle Sezioni Unite

I giudici di piazza Cavour ricordano come tali principi sono stati ripetutamente affermati dalle Sezioni Unite, sebbene con sentenze talora fraintese nella pratica.

Infatti sia Sez. U, Sentenza n. 3033 del 08/02/2013, Rv. 625141, sia Sez. U, Sentenza n. 28498 del 23/12/2005, Rv. 586371, là dove hanno affermato che l’appello ha natura di revisio prioris instantiae, non hanno affatto inteso sostenere che esso fosse un giudizio a critica vincolata, ma compirono quell’affermazione al limitato fine di stabilire come si ripartisse l’onere della prova in appello, e comunque ribadendo che la natura di revisio prioris instantiae del giudizio d’appello impedisce all’appellante di impugnare la sentenza di primo grado limitandosi ad una denuncia generica dell’ingiustizia della sentenza, ma non trasforma il sindacato sul rapporto in un sindacato sull’atto impugnato.

L’autosufficienza dell’atto di appello

Da questi principi deriva, in primo luogo, che rispetto all’atto d’appello non è concepibile alcun requisito di “autosufficienza” (quale che sia il maggior o minore rigore che si volesse attribuire a tale nozione, dal significato non sempre univoco nella giurisprudenza di legittimità). L’appellante ha l’onere di indicare in modo chiaro di quale errore intende dolersi, ma non ha alcun onere di trascrivere integralmente nell’atto d’appello i capitoli di prova che assume erroneamente rigettati.

Potrà dunque limitarsi, una volta esposta la doglianza in modo chiaro, a rinviare alle richieste istruttorie formulate in primo grado, indicando l’atto nel quale tali richieste siano contenute (come già ritenuto da Sez. L, Sentenza n. 26192 del 01/12/2005, Rv. 585633, ove si ribadisce “la mancanza nell’appello di un principio di autosufficienza”).

La seconda delle due rationes decidenti della Corte di appello

Escluso dunque che gli odierni appellanti avessero l’onere, a pena di inammissibilità dell’appello, di trascrivere in esso i capitoli di prova della cui mancata ammissione si dolevano, la decisione impugnata è, a parere dei giudici di legittimità, altresì erronea sia nella parte in cui ha ritenuto inammissibile l’appello per non avere gli appellanti specificato “dove si annidasse l’errore del giudicante”, sia nella parte in cui ha comunque ritenuto inammissibili le prove da essi richiesti.

Sotto il primo profilo, la decisione d’appello non ha considerato che il Tribunale non adottò alcun provvedimento formale di rigetto delle istanze istruttorie degli attori. La mancanza di una motivazione esplicita non consentiva dunque agli attori che reiterare le proprie istanze, ovvio essendo che è assai arduo muovere una censura specifica ad una decisione priva di motivazione.

In questa fattispecie particolare, pertanto, l’onere di specificità dell’appello era stato soddisfatto con la denuncia della mancanza di motivazione espressa e con la reiterazione delle richieste, oneri cui gli appellanti effettivamente assolsero.

Sotto il secondo profilo, i giudici di piazza Cavour evidenziano come l’errore della Corte d’appello sia stato duplice. In primo luogo, essa ha esaminato nel merito un motivo d’appello reputato poco prima inammissibile: il che non le era consentito, in virtù del principio secondo cui quando il giudice, dopo una statuizione di inammissibilità, abbia impropriamente inserito nella sentenza argomentazioni sul merito, queste sono da considerare tamquam non esset, e la parte soccombente non ha l’onere né l’interesse ad impugnare (Sez. U, Sentenza n. 3840 del 20/02/2007, Rv. 595555).

In secondo luogo, ed in ogni caso, la Corte d’appello ha rigettato nel merito le richieste istruttorie degli attori con una motivazione solo apparente e tautologica, e come tale violativa dell’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c., secondo quanto stabilito dalle Sezioni Unite della Suprema Corte con la nota sentenza pronunciata da Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830.

Da qui la cassazione della sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello territoriale, la quale, nel riesaminare il gravarne, si atterrà ai seguenti

principi di diritto:

L’appello, nei limiti dei motivi di impugnazione, è un giudizio sul rapporto controverso, e non sulla correttezza della sentenza impugnata. Ne consegue che rispetto all’atto d’appello non è concepibile alcun requisito di autosufficienza, ma solo di specificità, e che pertanto l’appellante che intenda dolersi del rigetto in primo grado delle sue istanze istruttorie non ha l’onere di trascriverle nell’atto d’appello.

La specificità dei motivi d’appello presuppone la specificità della motivazione della sentenza impugnata, sicché ove manchi quest’ultima, dall’appellante non è esigibile altro onere che riproporre l’istanza o la domanda immotivatamente rigettata.

I restanti motivi del ricorso vengono in parte dichiarati respinti ed in parte assorbiti dall’accoglimento di quelli sopra esposti.

Una breve riflessione

La sentenza in rassegna è molto interessante sotto diversi profili.

Intanto, perché chiarisce il contenuto che deve avere la domanda giudiziale, in genere, e, nella specie, la domanda giudiziale volta a reclamare il danno per omesso consenso informato.

In secondo luogo, perché chiarisce la natura dell’atto di appello e del giudizio di appello in relazione ai requisiti di specificità e di autosufficienza del gravame.

La sentenza, inoltre, affronta la problematica della impugnazione, in appello, delle decisioni di rigetto delle istanze istruttorie formulate in primo grado con particolare riferimento alle decisioni di rigetto implicito in cui, pertanto, non vi è una motivazione.

Interessante, è, infine, il richiamo al principio in forza del quale l’appello è un giudizio sul rapporto controverso, e non sulla correttezza della sentenza impugnata, sia pure nei limiti dei motivi di impugnazione.

avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)

managing partner at clouvell (www.clouvell.com)

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