Sulla proponibilità dell’azione generale di arricchimento

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L’azione generale di arricchimento ha natura complementare e sussidiaria, potendo essere esercitata solo quando manchi un’azione nei confronti dell’arricchito, o di altre persone, che trovi titolo in un contratto o nella legge, talché si differenzia da ogni altra azione sia per presupposti che per limiti oggettivi ed integra un’azione autonoma per diversità di petitum e causa petendi rispetto alle azioni fondate su titolo negoziale o di altro genere. E’, bensì, vero, poi che il danneggiato può proporla, in via subordinata, quando l’azione tipica, avanzata in via principale, abbia avuto esito negativo per carenza del titolo posto a suo fondamento, ma tale principio, non opera nè quando la domanda ordinaria, fondata su un titolo contrattuale, è stata rigettata per l’assenza di prove sufficienti all’accoglimento, nè quando tale domanda, dopo essere stata proposta, non è stata più coltivata dall’interessato dato che in tali ipotesi il titolo specifico, fonte del credito azionato, in tesi sussiste (ma è infondato), o avrebbe potuto esser positivamente accertato, sol che il creditore avesse utilmente proseguito il relativo giudizio.

Lo ha ribadito la Suprema Corte di Cassazione – sezione prima civile – con sentenza n. 20871 del 15 ottobre 2015

Sulla proponibilità dell'azione generale di arricchimento

Sulla proponibilità dell’azione generale di arricchimento

Il caso

Un appaltatore convenne in giudizio l’Amministrazione comunale, e, premettendo di aver eseguito il primo lotto dei lavori di costruzione di un edificio scolastico, di aver, poi, eseguito, in base ad apposito contratto, i successivi lavori di completamento, espose che il relativo saldo non gli era stato corrisposto dal convenuto, che aveva annullato gli atti relativi all’appalto, compreso il contratto, perché affidato a trattativa privata.

Deducendo di aver impugnato in sede giurisdizionale amministrativa la delibera d’annullamento, con esito negativo, l’appaltatore chiese la condanna del Comune al pagamento dell’indennizzo per ingiustificato arricchimento, nonché al risarcimento ex artt. 1337 e 1338 cc.

La sentenza del Tribunale

Il Tribunale adito dichiarò improponibile la domanda ex art. 2041 cc, per esser pendente il giudizio sulla domanda contrattuale, e rigettò quella risarcitoria.

La sentenza di appello

La decisione, su gravame dell’attore, fu confermata dalla Corte d’Appello, che ha stabilito che:

  • a) la proposta azione contrattuale non era stata respinta prima della proposizione della domanda d’indebito arricchimento, che, per il suo carattere residuale, era in conseguenza preclusa;
  • b) la circostanza che il contratto era nullo per violazione della norma imperativa di cui all’art. 12 della L n. 1 del 1978, escludeva che l’appaltatore potesse, senza sua colpa, confidare sulla validità del contratto. Da qui il ricorso per cassazione da parte dell’appaltatore.

I motivi di ricorso

  1. Con il primo motivo, deducendo, ex art. 360, 1° co, n. 3 cpc, la violazione dell’art. 2042 cc, il ricorrente lamenta che la Corte napoletana ha ritenuto improponibile la domanda d’indebito arricchimento, senza considerare, da una parte, che tale azione può proporsi, in via subordinata, in concorrenza o in pendenza di quella c.d. primaria, e, dall’altra, che il principio della sussidiarietà postula, semplicemente, che non sia prevista dall’ordinamento altra azione tipica a tutela di colui che lamenti il depauperamento, e cioè che sia carente ab origine qualsiasi altra azione.
  2. Col secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione degli artt. 189, 190 e 306 cpc, in riferimento all’art. 360, 1° co, n. 4 cpc, evidenziando che “la comparsa conclusionale poteva evidenziare un’implicità rinuncia all’azione ex artt. 1337 e 1338 cc, ma, in concreto, tale rinuncia non vi è mai stata”, sicchè l’inciso, contenuto nell’impugnata sentenza, di una presunta rinuncia doveva considerarsi erroneo.
  3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 112 cpc, non avendo la Corte d’Appello trattato della responsabilità ex art. 1337 cc, tenuto conto che era stato dedotto che il Comune aveva agito in mala fede nella predisposizione degli atti propedeutici al contratto, e che su tale questione la sentenza aveva taciuto, avendo, piuttosto, motivato in riferimento alla disposizione di cui all’art. 1338 cc.
  4. Con il quarto motivo, si lamenta la violazione dell’art. 1338 cc, tenuto conto che l’inosservanza dell’art. 12 della L n. 1 del 1978 era dovuta “ad un atto propedeutico, nel quale risulta riportato un quadro economico che secondo il Giudice Amministrativo nascondeva un artifizio contabile inficiante l’atto medesimo”, artificio che non era stato portato a sua conoscenza, ma eccepito dal Comune dopo la realizzazione della scuola ed allo scopo di sottrarsi al pagamento.

Perché la Suprema Corte respinge tutti i motivi

L’azione generale di arricchimento

La Suprema Corte ricorda che secondo la giurisprudenza dei giudici di legittimità (Cass. 20141 del 2007; Cass. 11067 del 2003; Cass. 16340 del 2002), l’azione generale di arricchimento ha natura complementare e sussidiaria, potendo essere esercitata solo quando manchi un’azione nei confronti dell’arricchito, o di altre persone, che trovi titolo in un contratto o nella legge, talché si differenzia da ogni altra azione sia per presupposti che per limiti oggettivi ed integra un’azione autonoma per diversità di petitum e causa petendi rispetto alle azioni fondate su titolo negoziale o di altro genere.

Quando e come può essere esperita l’azione generale di arricchimento

E’, bensì, vero, poi – proseguono gli Ermellini – che il danneggiato può proporla, in via subordinata, quando l’azione tipica, avanzata in via principale, abbia avuto esito negativo per carenza del titolo posto a suo fondamento (Cass. n. 4492 del 2010; n. 6295 del 2013); ma tale principio, invocato nella specie dal ricorrente, non opera nè quando la domanda ordinaria, fondata su un titolo contrattuale, è stata rigettata per l’assenza di prove sufficienti all’accoglimento, nè quando tale domanda, dopo essere stata proposta, non è stata più coltivata dall’interessato (Cass. n. 8020 del 2009; n. 6295 del 2013), dato che in tali ipotesi il titolo specifico, fonte del credito azionato, in tesi sussiste (ma è infondato), o avrebbe potuto esser positivamente accertato, sol che il creditore avesse utilmente proseguito il relativo giudizio.

E poiché la detta ipotesi ricorre nella specie, tenuto conto che l’appaltatore aveva proposto la domanda contrattuale (volta a conseguire il saldo dei lavori eseguiti) il cui giudizio, sospeso in pendenza del procedimento giurisdizionale amministrativo non è stato riassunto, motivo per cui era da considerarsi pendente alla data della proposizione della domanda d’ingiustificato arricchimento e non consta essere mai stato esitato, la Corte di cassazione respinge il motivo.

La Suprema Corte respinge anche tutti i tre restanti motivi del ricorso e precisamente per difetto di interesse (il secondo); per infondatezza il terzo e per inammissibilità, il quarto.

Una breve riflessione

La sentenza in rassegna si sofferma su alcuni aspetti relativi all’azione generali di arricchimento.

Come è noto, l’articolo 2041 del codice civile recita che ”chi, senza una giusta causa, si è arricchito a danno di un’altra persona è tenuto, nei limiti dell’arricchimento, a indennizzare quest’ultima della correlativa diminuzione patrimoniale. Qualora l’arricchimento abbia per oggetto una cosa determinata, colui che l’ha ricevuta è tenuto a restituirla in natura, se sussiste al tempo della domanda”. Il successivo articolo 2042 recita poi: “L’azione di arricchimento non è proponibile quando il danneggiato può esercitare un’altra azione per farsi indennizzare del pregiudizio subito”.

Dal chiaro disposto normativo si evince dunque che l’azione generale di arricchimento è una azione residuale, esperibile cioè, a pena di improponibilità, solo quando l’avente diritto non possa fare ricorso ad un’azione cd. titolata.

La Suprema Corte, sul punto, ha dunque affermato il principio riportato in premessa, ovverossia che l’azione generale di arricchimento ha natura complementare e sussidiaria, potendo essere esercitata solo quando manchi un’azione nei confronti dell’arricchito, o di altre persone, che trovi titolo in un contratto o nella legge.

Essa – l’azione generale di arricchimento – dunque, si differenzia da ogni altra azione e per diversità di petitum e per diversità di causa petendi rispetto alle azioni fondate su titolo negoziale o di altro genere.

Ciò detto, la Suprema Corte affronta però una problematica particolare derivante dall’avere azionato, l’avente diritto, l’azione generale di arricchimento in via subordinata all’azione titolata.

E la risposta fornita dagli Ermellini è che la esperibilità dell’azione generale di arricchimento in via subordinata è pacificamente ammessa, ma può essere valutata solo allorquando la domanda principale abbia avuto esito negativo per carenza del titolo posto a suo fondamento.

Viceversa, allorquando la domanda principale sia stata rigettata nel merito (es. per insufficienza delle prove) ovvero non sia stata più utilmente coltivata, l’azione generale di arricchimento non può essere positivamente valutata.

In buona sostanza, dai principi soprarichiamati emerge che l’azione generale di arricchimento presuppone non solo che non via sia un’azione titolata che possa essere utilmente promossa dall’avente diritto, ma altresì che non vi sia (stata) un’azione titolata che sia stata rigettata nel merito (per assenza di prove e quindi per infondatezza della domanda) o, infine, che non via sia stata un’azione titolata che non sia stata coltivata utilmente (ad esempio, per mancata riassunzione o per prescrizione del credito).

I superiori principi tendono, in fin dei conti, ad evitare una duplicazione di giudizi sulla stessa pretesa e, dunque, a far sì che il danneggiato, dopo aver inutilmente esperito un’azione tipica rigettata per difetto di prove, proponga poi l’azione generale di arricchimento; ovvero, ancora, essendo maturate decadenze o prescrizioni per l’azione titolata, tenti di porre rimedio attraverso l’esperimento dell’azione ex art. 2041 c.c.

Alla luce dei richiamati principi appare adesso più chiara la locuzione contenuta nell’articolo 2042 del codice civile “può esercitare” che va interpretata, più correttamente, nel seguente modo: “può esercitare o avrebbe potuto esercitare”.

avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)

managing partner at clouvell (www.clouvell.com)

 

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