LICENZIAMENTO E RITO FORNERO: LA FASE SUCCESSIVA A QUELLA SOMMARIA NON HA CARATTERE IMPUGNATORIO MA E’ UNA PROSECUZIONE DELLA PRIMA

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Licenziamento e rito Fornero: la fase sommaria prosegue con l’opposizione.

Licenziamento e rito Fornero

Licenziamento e rito Fornero

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione – Sezioni Unite Civili con la sentenza n.19674 del 18.9.2014

La cosiddetta riforma Fornero, come è noto, ha introdotto diverse novità in tema di impugnazione del licenziamento, sia dal punto di vista sostanziale, modificando l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che da punto di vista procedurale.
Sotto tale ultimo profilo vengono in rilievo i commi 47 e seguenti dell’articolo 1 della legge 2012 n°92.

L’IMPUGNATIVA DEL LICENZIAMENTO

La nuova normativa prevede che “la domanda avente ad oggetto l’impugnativa del licenziamento di cui al comma 47 si propone con ricorso al tribunale in funzione di giudice del lavoro. Il ricorso deve avere i requisiti di cui all’articolo 125 del codice di procedura civile. Con il ricorso non possono essere proposte domande diverse da quelle di cui al comma 47 del presente articolo, salvo che siano fondate sugli identici fatti costitutivi. A seguito della presentazione del ricorso il giudice fissa con decreto l’udienza di comparizione delle parti. L’udienza deve essere fissata non oltre quaranta giorni dal deposito del ricorso. Il giudice assegna un termine per la notifica del ricorso e del decreto non inferiore a venticinque giorni prima dell’udienza, nonche’ un termine, non inferiore a cinque giorni prima della stessa udienza, per la costituzione del resistente. La notificazione e’ a cura del ricorrente, anche a mezzo di posta elettronica certificata. Qualora dalle parti siano prodotti documenti, essi devono essere depositati presso la cancelleria in duplice copia. Il giudice, sentite le parti e omessa ogni formalita’ non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene piu’ opportuno agli atti di istruzione indispensabili richiesti dalle parti o disposti d’ufficio, ai sensi dell’articolo 421 del codice di procedura civile, e provvede, con ordinanza immediatamente esecutiva, all’accoglimento o al rigetto della domanda”.
Questa appena descritta è la prima fase, cosiddetta sommaria.
I commi 51 e ss. si preoccupano di disciplinare l’impugnazione avverso il provvedimento che definisce la fase sommaria.

LA FASE SUCCESSIVA A QUELLA SOMMARIA

La normativa stabilisce che “contro l’ordinanza di accoglimento o di rigetto di cui al comma 49 puo’ essere proposta opposizione con ricorso contenente i requisiti di cui all’articolo 414 del codice di procedura civile, da depositare innanzi al tribunale che ha emesso il provvedimento opposto, a pena di decadenza, entro trenta giorni dalla notificazione dello stesso, o dalla comunicazione se anteriore. Con il ricorso non possono essere proposte domande diverse da quelle di cui al comma 47 del presente articolo, salvo che siano fondate sugli identici fatti costitutivi o siano svolte nei confronti di soggetti rispetto ai quali la causa e’ comune o dai quali si intende essere garantiti. Il giudice fissa con decreto l’udienza di discussione non oltre i successivi sessanta giorni, assegnando all’opposto termine per costituirsi fino a dieci giorni prima dell’udienza”.

La sentenza delle Sezioni Civili della Suprema Corte di Cassazione sopra indicata, nel decidere un caso di regolamento di giurisdizione, ha affrontato e risolto la questione sulla natura giuridica del procedimento instaurato con la opposizione al provvedimento che definisce la prima fase, quella appunto sommaria.

Vediamo il ragionamento del Supremo consesso ripercorrendo la motivazione della sentenza.

LE DOGLIANZE DEL LAVORATORE

Una lavoratrice “impugnava il licenziamento intimatole con missiva del 14 febbraio 2013 e chiedeva in via principale di accertarne e dichiararne la nullità e/o l’illegittimità stante la discriminatorietà del recesso, la genericità e la tardività della contestazione, e comunque non ricorrendo gli estremi della giusta causa addotti dall’Accademia di Francia per insussistenza del fatto contestato e/o perchè il fatto rientrava tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi e/o del codice disciplinare applicabili ai rapporto di lavoro; e, per l’effetto, chiedeva annullarsi il licenziamento impugnato e condannarsi l’Accademia di Francia alla sua reintegrazione nel posto di lavoro ed al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto percepita dalla ricorrente dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione e comunque nella misura massima di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto (pari a lorde Euro 1.630,00 x 14:12= 1902,00), oltre al pagamento dei contributi previdenziali ed assistenziali per il periodo dal licenziamento all’effettiva reintegra. In via subordinata chiedeva accertarsi e dichiararsi che non ricorrevano gli estremi della giusta causa e, per l’effetto, condannarsi l’Accademia di Francia al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva ai sensi dell’art. 18, comma 5 dello Statuto dei lavoratori (L. n. 300 del 1970) nella misura massima di 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto”.

LA TESI DEL DATORE DI LAVORO

“Si costituiva l’Accademia di Francia eccependo preliminarmente il difetto di giurisdizione del giudice italiano e deducendo che la giurisdizione sulla controversia spettava al giudice francese come già affermato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione in altra analoga controversia (Cass., sez. un., n. 5126 del 1994).
Nel merito contestava il fondamento delle domande della ricorrente e concludeva per il rigetto del ricorso.
3. Contestualmente alla costituzione in tale giudizio l’Accademia resistente ha proposto ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione chiedendo dichiararsi il difetto di giurisdizione del giudice italiano atteso che essa – Accademia di Francia – costituisce un’istituzione pubblica francese, facente parte integrante dell’Amministrazione Pubblica dello Stato francese quale diretta emanazione del Ministero degli affari culturali di quest’ultimo.
Richiama in particolare Cass., Sez. un., 26 maggio 1994 n. 5126 cit. che ha affermato che il giudice italiano difetta di giurisdizione in ordine alla domanda proposta contro l’Academie de France a Rome e volta a conseguire la dichiarazione dell’illegittimità del licenziamento intimato ad una dipendente addetta a mansioni correlate all’attività pubblicistica della convenuta, con conseguente obbligo di reintegrazione ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 18 operando al riguardo – sia per la natura pubblicistica di detta “Academie” (istituzione costituente parte integrante dello Stato francese) sia in base agli accordi culturali italo-francesi di cui alla Legge di Esecuzione 30 luglio 1952 n. 1177 – il principio (recepito dall’art. 10 Cost.) “par in parem non habet jurisdictionem” ed investendo dette domande i poteri pubblicistici dell’ente straniero circa l’organizzazione di suoi uffici e servizi”.

IL CONTRORICORSO DELLA RICORRENTE

“4. Ha resistito con controricorso l’originaria ricorrente eccependo in via preliminare l’inammissibilità del ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione nella fase iniziale del giudizio instaurato ai sensi della L. n. 92 del 2012, art. 1 e sostenendo comunque sussistere la giurisdizione del giudice italiano.
5. Il P.G. ha concluso chiedendo dichiararsi il difetto di giurisdizione del giudice Italiano limitatamente alla domanda volta alla reintegrazione della controricorrente nel proprio posto di lavoro, ferma restando la giurisdizione del giudice italiano in ordine a tutte le altre pretese di carattere patrimoniale.
Entrambe le parti hanno depositato memoria”.

IL RAGIONAMENTO DELLA SUPREMA CORTE

Secondo la Suprema Corte “Il regolamento è ammissibile, anche se proposto durante la prima fase del procedimento d’impugnazione del licenziamento quale previsto dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 47 e segg. che ha introdotto un nuovo speciale rito per le controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18; rito speciale finalizzato all’accelerazione dei tempi del processo, nonchè della stessa proposizione dell’impugnativa avendo il legislatore voluto che la questione della reintegrazione – e più in generale dell’impugnativa del licenziamento per l’accesso alle tutele di cui all’art. 18 cit. – sia subito portata innanzi al giudice e decisa in tempi rapidi. Il carattere peculiare di questo nuovo rito sta nell’articolazione del giudizio di primo grado in due fasi: una fase a cognizione semplificata (o sommaria) e l’altra, definita di opposizione, a cognizione piena nello stesso grado. La prima fase è caratterizzata dalla mancanza di formalità: non c’è – rispetto al rito ordinario (quello delle controversie di lavoro) – il rigido meccanismo delle decadenze e delle preclusioni di cui agli artt. 414 e 416 cod. proc. civ.; l’istruttoria, essendo limitata agli atti di istruzione indispensabili, è semplificata o sommaria quale quella così qualificata nel procedimento di cui all’art. 702 bis c.p.c. e segg.. La seconda fase è invece introdotta con un atto di opposizione proposto con ricorso contenente i requisiti di cui all’art. 414 cod. proc. civ., opposizione che non è una revisio prioris istantiae, ma una prosecuzione del giudizio di primo grado, ricondotto in linea di massima al modello ordinario, con cognizione piena a mezzo di tutti gli atti di istruzione ammissibili e rilevanti. La questione di legittimità costituzionale della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 51, e dell’art. 51 c.p.c., comma 1, n. 4 sollevata dal giudice rimettente per l’ipotesi in cui la fase dell’opposizione sia da configurarsi come un vero e proprio giudizio di carattere impugnatorio è stata dichiarata manifestamente inammissibile dalla Corte (C. cost., ord., 16 luglio 2014 n. 205) che ha rilevato l’improprio tentativo di ottenere da questa Corte, con uso distorto dell’incidente di costituzionalità, l’avallo dell’interpretazione proposta dal rimettente in ordine ad un contesto normativo che egli pur riconosce suscettibile di duplice lettura; tanto più che il giudice rimettente riteneva essere preferibile, e costituzionalmente più compatibile, l’opposta interpretazione, secondo cui andrebbe, invece, escluso un tale contenuto impugnatorio alla opposizione. Quindi dopo una fase iniziale concentrata e deformalizzata – mirata a riconoscere, sussistendone i presupposti, al lavoratore ricorrente una tutela rapida ed immediata e ad assegnargli un vantaggio processuale (da parte ricorrente a parte eventualmente opposta), ove il fondamento della sua domanda risulti prima facie sussistere alla luce dei soli atti di istruzione indispensabili – il procedimento si riespande, nella fase dell’opposizione, alla dimensione ordinaria della cognizione piena con accesso per le parti a tutti gli atti di istruzione ammissibili e rilevanti. L’esigenza di evitare che la durata del processo ordinario si risolva in un pregiudizio per la parte che intende far valere le proprie ragioni (C. cost. 28 gennaio 2010 n. 26) va coniugata sempre con l’effettività e pienezza della tutela. La diversità e peculiarità della materia giustificano – un binario accelerato nei limiti in cui – come ha avvertito la Corte costituzionale con riferimento a moduli processuali speciali finalizzati ad accelerare la definizione delle controversie (C. cost. 10 novembre 1999 n. 42) – non sia pregiudicato lo scopo e la funzione del processo e non sia compromessa l’effettività della tutela giurisdizionale. La quale potrebbe in ipotesi necessitare di un’istruttoria non sommaria, evenienza questa che l’art. 702 ter c.p.c., commi 2 e 3 prevede in generale nel procedimento sommario di cognizione contemplando la conversione nel rito ordinario (non diversamente da quanto previsto per quello che era uno speciale procedimento sommario di cognizione in materia societaria, finanziaria e creditizia dal D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, art. 19, comma 3, prima dell’abrogazione L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 54) e che invece solo un’espressa disposizione derogatoria, quale quella contemplata dal D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, art. 3, comma 1, esclude per lo speciale rito sommario di cognizione applicabile alle controversie disciplinate dal Capo 3 del medesimo D.Lgs.. La questione di costituzionalità avente ad oggetto uno di tali ultimi speciali procedimenti sommari di cognizione, sollevata in particolare in riferimento all’art. 24 Cost., sotto il profilo dell’ingiustificato limite alla prova, è stata ritenuta inammissibile dalla Corte costituzionale (C. cost. 23 gennaio 2013 n. 10) non avendo in particolare il giudice remittente sperimentato la possibilità di interpretare la norma nel senso che essa consenta al giudice di assicurare, pur nell’ambito dell’istruttoria deformalizzata, propria del procedimento sommario di cognizione, le garanzie che egli ritiene necessarie ai fini del rispetto dei parametri costituzionali invocati.

Si tratta, quindi, nella specie di una fase del giudizio di primo grado – la prima fase – che è semplificata e sommaria, ma non già cautelare in senso stretto: non occorre la prova di alcun concreto periculum, essendo l’urgenza preventivamente ed astrattamente valutata dal legislatore in considerazione del tipo di controversia.

La sommarietà riguarda le caratteristiche dell’istruttoria, senza che ad essa si ricolleghi una sommarietà della cognizione del giudice, nè l’instabilità del provvedimento finale (l’idoneità al giudicato è espressamente prevista per la sentenza resa all’esito dell’opposizione e non può essere esclusa per l’ordinanza conclusiva della fase sommaria, irrevocabile fino alla conclusione di quella di opposizione; sul passaggio in giudicato dell’ordinanza emessa nell’ordinario rito sommario di cognizione ex art. 702 bis cod. proc. civ. v. Cass., sez. 6-1, 10 luglio 2012, n. 11512)”.

L’interpretazione della Suprema Corte di Cassazione, peraltro a sezioni unite, appare in linea con la ratio di tutela del lavoratore licenziato illegittimamente

Peccato che il dettato normativo pecchi di chiarezza, soprattutto nell’uso di termini che, per il loro significato tecnico, andrebbero impiegati con maggiore cautela. Difatti, il termine “opposizione” usato dal legislatore rimanda ad un concetto diverso rispetto a quello delineato dalla Suprema Corte con la sentenza citata. Questione tutt’altro che terminologica, ma che ha anche rilevanti riflessi anche in ordine alla individuazione del giudice che può partecipare alla seconda fase. Giacchè, se ci trovassimo di fronte ad un giudizio di opposizione, il giudice della seconda fase dovrebbe essere necessariamente diverso da quello che ha emesso il provvedimento oggetto di opposizione. Se ci troviamo di fronte ad una prosecuzione, potremmo trovarci di fronte alla ipotesi che il giudice della prima e della seconda fase coincidano. Anche se una tale conclusione non è per nulla scontata e sarà affrontata in altra occasione.

Da qui puoi collegarti al sito del Ministero del lavoro e delle politiche sociali.

Avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)

managing partner at clouvell (www.clouvell.com)

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