Presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative in ambito familiare.

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Per superare la presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative in ambito familiare (che trova la sua fonte nella circostanza che tali prestazioni vengono normalmente rese “affectionis vel benevolentiue causae“) è necessario che la parte che faccia valere in giudizio diritti derivanti da tali rapporti offra una prova rigorosa degli elementi costitutivi del rapporto di lavoro subordinato e, in particolar modo, dei requisiti indefettibili della subordinazione e della onerosità.

Lo ha ribadito il Tribunale di Messina – sezione lavoro – con sentenza 10 marzo 2015

Presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative in ambito familiare.

Presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative in ambito familiare.

Il caso. 

Una donna proponeva ricorso al giudice del lavoro e, premesso di aver prestato  prestato attività lavorativa alle dipendenze e quindi in favore dei suoceri, assistendoli con continuità ed in un vasto arco temporale per gli atti della vita quotidiana, chiedeva il riconoscimento del rapporto di lavoro con la qualifica di collaboratrice domestica, la relativa retribuzione con regolarizzazione del rapporto sotto il profilo previdenziale e assicurativo e la conseguente condanna dei convenuti, quali eredi dei suoceri, frattanto deceduti.

I resistenti si costituivano in giudizio contestando la fondatezza delle pretese attoree, deducendo che qualunque attività assistenziale eventualmente prestata dalla ricorrente non poteva non ricondursi ad una situazione di “affectio“, solidarietà e benevolenza tale da giustificarne la gratuità.

La causa veniva istruita con l’escussione dei testi in esito alla quale il giudice decideva rigettando la domanda.

Il ragionamento del giudice

Secondo il Giudice, nell’esame della controversia, accentrata sul riconoscimento della natura subordinata del rapporto dedotto in giudizio, occorre muovere dal principio, pacificamente affermato in giurisprudenza, che spetta a colui che chiede l’accertamento di un rapporto di lavoro dipendente dare la prova della subordinazione, ossia dell’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro; in mancanza, va rilevata la natura autonoma della prestazione, considerando che altri elementi, quali la continuità della prestazione, la predeterminazione della retribuzione e l’obbligo di osservanza di un determinato orario di lavoro risultano irrilevanti al fine ricercato, o quanto meno non decisivi, poiché sono elementi compatibili con l’uno e l’altro tipo di rapporto.

Perché il Giudice rigetta la domanda della ricorrente.

Nella specie, secondo il giudice, le domande della ricorrente difettano dei presupposti per il riconoscimento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato sul quale la ricorrente fonda le proprie pretese. In particolare, risulta carente la prova in ordine agli elementi in base ai quali possa ravvisarsi l’instaurazione di un rapporto di natura subordinata, tanto più che “per superare la presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative rese in ambito familiare (che trova la sua fonte nella circostanza che tali prestazioni vengono normalmente rese “affectionis vel benevolentiue causae” è necessario che la parte che faccia valere in giudizio diritti derivanti da tali rapporti offra una prova rigorosa degli elementi costitutivi del rapporto di lavoro subordinato e, in particolar modo, dei requisiti indefettibili della subordinazione e della onerosità” (Cass. civ., sez. lav., 20 aprile 2011 n.9043).

Per il riconoscimento delle prestazioni lavorative in ambito familarie, è necessario provare la subordinazione e la onerosità delle prestazioni.

Sicchè, nella specie, non avendo la ricorrente assolto a tale rigoroso onere probatorio, non avendo fornito una specifica prova della subordinazione e della onerosità delle prestazioni, la domanda è stata rigettata. Difatti, secondo il giudice, non è emerso il necessario nesso di corrispettività tra la prestazione lavorativa e quella retribuiva, entrambe caratterizzate  dall’obbligatorietà, né che la prestazione svolta dalla ricorrente  sia stata soggetta a direttive e controlli, pur se in un eventuale quadro caratterizzato da maggiore elasticità di orari.

Una breve riflessione

La sentenza in questione, sia pure in linea con un filone interpretativo della Suprema Corte, penalizza, di fatto, il lavoratore, onerandolo di una prova troppo eccessiva e rigorosa, molto difficile da raggiungere soprattutto in ambito familiare.

Se è pur vero che le prestazioni in ambito domestico da parte dei familiari vengono normalmente rese “affectionis vel benevolentiue causae“, appare davvero eccessivo che chi pretende il riconoscimento della propria legittima attività lavorativa debba offrire una prova rigorosa degli elementi costitutivi del rapporto di lavoro subordinato e, in particolar modo, dei requisiti indefettibili della subordinazione e della onerosità, e dimostrare altresì il necessario nesso di corrispettività tra la prestazione lavorativa e quella retributiva.

La predeterminazione della retribuzione, l’obbligo di osservanza di un determinato orario di lavoro e la continuità della prestazioni non solo elementi sufficienti alla dimostrazione della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato.

E’ davvero eccessivo ritenere che  la continuità della prestazione, la predeterminazione della retribuzione e l’obbligo di osservanza di un determinato orario di lavoro risulterebbero irrilevanti ai fini della prova della instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato in ambito domestico da parte di un soggetto legato da vincoli di parentela o affinità con il “datore di lavoro”.

E ciò in quanto l’interpretazione offerta, se tende a tutelare il soggetto che ha ricevuto le prestazioni lavorative, dall’altro si presterebbe ad “abusi” tutte le volte in cui il soggetto beneficiario delle prestazioni, sfruttando una simile interpretazione rigorosa della giurisprudenza, possa richiedere ed ottenere prestazioni lavorative senza assumere nessun obbligo, creando così, nei fatti, uno squilibrio sinallagmatico che è difficile riequilibrare.

Pertanto, si ritiene che andrebbe anche considerato il grado di parentela ed affinità tra il soggetto lavoratore ed il “datore di lavoro”, nel senso che tanto meno è stretto il rapporto di parentela o affinità, tanto minore dovrà essere il rigore della prova richiesto dal giudice.

Una interpretazione come quella prospettata dal giudice nella sentenza in commento avrebbe, addirittura, il paradossale effetto boomerang di privare gli anziani di una preziosa assistenza da parte dei familiari o parenti che prestano la propria attività non solo per benevolenza ma anche per poter racimolare qualcosa per vivere. E molte sono le ipotesi di lavoratori domestici familiari i quali lavorano “alle dipendenze” continuative di un familiare anziano e non ricevono soldi sol perché hanno avuto promesso in cambio qualcosa dopo la morte del “datore di lavoro”.

Eppure tali soggetti lavorano, anche abbastanza, con continuità. Dopo la morte del soggetto a  favore del quale hanno prestato l’attività lavorativa, però, spesso si ritrovano improvvisamente con un bel niente in mano.

Forse una disciplina ad hoc sarebbe necessaria per regolare, in via normativa ancor prima che interpretativa, i rapporti di lavoro, comunque denominati, tra familiari.

avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)

managing partner at clouvell.com (www.clouvell.com)

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