Liquidazione del danno nell’azione di responsabilità promossa dal curatore contro gli amministratori della società fallita.

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Nell’azione di responsabilità promossa dal curatore del fallimento di una società di capitali nei confronti dell’amministratore della stessa l’individuazione e la liquidazione del danno risarcibile dev’essere operata avendo riguardo agli specifici inadempimenti dell’amministratore, che l’attore ha l’onere di allegare, onde possa essere verificata l’esistenza di un rapporto di causalità tra tali inadempimenti ed il danno di cui si pretende il risarcimento. Nelle predette azioni la mancanza di scritture contabili della società, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, di per sé sola non giustifica che il danno da risarcire sia individuato e liquidato in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l’attivo accertati in ambito fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato soltanto al fine della liquidazione equitativa del danno, ove ricorrano le condizioni perché si proceda ad una liquidazione siffatta, purché siano indicate le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore e purché il ricorso a detto criterio si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto.

Lo ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione – sezioni unite civili – con sentenza n.9100 del 6 maggio 2015.

Liquidazione del danno nell’azione di responsabilità promossa dal curatore contro gli amministratori della società fallita.

Liquidazione del danno nell’azione di responsabilità promossa dal curatore contro gli amministratori della società fallita.

Il caso

Il curatore di un fallimento citava in giudizio l’amministratore della società fallita chiedendone la condanna al risarcimento dei danni

  • sia perché egli aveva consentito la distrazione di beni custoditi in locali della società,
  • sia perché non aveva tenuto i libri sociali,
  • sia perché non aveva predisposto i bilanci relativi agli esercizi relativi agli anni 1994 e 1995
  • sia perché non aveva presentato ai competenti uffici dell’erario le prescritte dichiarazioni fiscali riguardanti quei medesimi anni.

Il tribunale accoglieva la domanda e condannava il convenuto ai risarcimento dei danni che liquidava in misura pari alla differenza tra il passivo e l’attivo rilevati nell’ambito della procedura di fallimento.

La Corte di appello rigettava il gravame rilevando che fosse corretta la liquidazione del danno operata dal tribunale, stante l’impossibilità di ricostruire l’effettiva situazione patrimoniale della società fallita a causa della mancanza delle scritture contabili, imputabile allo stesso amministratore.

Da qui il ricorso per cassazione dell’ex amministratore.

La questione giuridica sottoposta al vaglio delle sezioni unite.

La questione riguarda l’individuazione del danno risarcibile ed il relativo criterio di liquidazione nelle azioni di responsabilità promosse dai competenti organi di una procedura concorsuale nei confronti di amministratori di società di capitali dichiarate insolventi, ai quali sia imputato di aver tenuto un comportamento contrario ai doveri loro imposti dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto sociale.

L’ordinanza di rimessione della questione alle sezioni unite.

L’ordinanza di rimessione focalizza l’attenzione sulla “utilizzabilità, ai fini dell’accertamento e liquidazione del danno nelle azioni di responsabilità, quale quella in questione, del dato costituito dalla differenza tra il passivo e l’attivo fallimentare”, ed aggiunge che, qualora si reputi utilizzabile questo criterio, “occorre stabilire quali siano le condizioni ed i limiti entro i quali tale dato sia utilizzabile, in connessione con le ragioni che lo giustificano”.

L’orientamento per cui il danno risarcibile va identificato nella differenza tra il passivo e l’attivo accertati in sede fallimentare.

Su tale posizione si segnala Cass. n. 1282. del 1977 che ha affrontato un caso nel quale all’amministratore era stato addebitato di aver violato il divieto di compiere nuove operazioni dopo il verificarsi di una causa di scioglimento della società, consistita nella perdita di oltre un terzo del capitale sociale e nella riduzione di questo al di sotto del minimo legale (divieto che, com’è noto, era espressamente previsto dal primo comma dell’art. 2449 c.c., nella versione antecedente la già ricordata riforma del diritto societario del 2003).

Tale orientamento è stato a distanza di pochissimo tempo avallato da Cass. n. 2671 del 1977, ma in un caso in cui si era ritenuto che il dissesto dell’impresa fosse dipeso proprio dall’illecito comportamento degli organi sociali.

Anni dopo Cass. n. 6493 del 1985 è tornata ad approvare l’utilizzo del predetto criterio, in una fattispecie nella quale l’addebito mosso agli amministratori consisteva nel non aver tenuto la contabilità sociale o nell’averla tenuta in modo sommario e non intellegibile.

Le critiche della dottrina a tale orientamento.

Nel decennio successivo le critiche che gran parte della dottrina era andata formulando all’adozione di quel criterio, sottolineandone l’inadeguatezza a dar conto del rapporto di causalità che deve sussistere tra il comportamento illegittimo addebitato agli organi sociali ed il danno risarcibile, ha indotto anche la giurisprudenza ad interrogarsi più approfonditamente in proposito.

Il nuovo filone interpretativo.

Cass. n. 9252 del 1997 ha affermato che il danno che gli amministratori ed i sindaci sono tenuti a risarcire, quando abbiano, rispettivamente, violato o non vigilato sul dovere di non intraprendere nuove operazioni in presenza di una causa di scioglimento della società, non s’identifica automaticamente nella differenza tra passivo ed attivo accertati in sede di fallimento, ma può essere commisurato a tale differenza, in mancanza di prova di un maggior pregiudizio, solo se da detta violazione sia dipeso il dissesto economico ed il conseguente fallimento della società. E Cass. n. 10488 del 1998 è prevenuta alla conclusione che, in azioni di tal genere, il danno non dev’essere liquidato alla stregua del suddetto criterio differenziale, ma va invece determinato in relazione alle conseguenze immediate e dirette delle violazioni contestate.

Quest’ultimo orientamento è stato poi confermato anche da Cass. n. 1375 del 2000, la quale ha precisato come, in simili casi, il danno può essere identificato nella differenza tra passivo ed attivo patrimoniale della società solo qualora il dissesto economico ed il conseguente fallimento si siano verificati per fatto imputabile agli amministratori, liquidatori o sindaci convenuti in giudizio; e che quindi non basta a configurare la responsabilità di costoro che vi sia stato un disavanzo fallimentare, ma occorre dimostrare la specifica violazione dei doveri loro imposti dalla legge, in quanto la prova della violazione di tali obblighi non giustifica la condanna al risarcimento del danno se non si dimostri, da parte del curatore, che quelle violazioni hanno cagionato un pregiudizio alla società.

La giurisprudenza degli inizi del ventunesimo secolo.

Nel nuovo secolo la giurisprudenza sembrava essersi stabilizzata nel senso da ultimo indicato, come attestano Cass. n. 2538 del 2005 e n. 3032 del 2005, che hanno insistito nell’affermare che il danno in questione non può essere commisurato alla differenza tra passivo ed attivo accertati in sede concorsuale: sia in quanto lo sbilancio patrimoniale della società insolvente potrebbe avere cause molteplici, non tutte riconducibili alla condotta illegittima degli organi sociali, sia in quanto questo criterio si pone in contrasto con il principio civilistico che impone di accertare l’esistenza del nesso di causalità tra la condotta illegittima ed il danno, con l’ulteriore precisazione, tuttavia, che il suaccennato criterio differenziale può costituire un parametro di riferimento per la liquidazione del danno in via equitativa, qualora sia stata accertata l’impossibilità di ricostruire i dati con l’analiticità necessaria per individuare le conseguenze dannose riconducibili al comportamento degli organi sociali; ma, in tal caso, il giudice del merito deve indicare le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti pregiudizievoli riconducibili alla condotta dei convenuti, nonché, soprattutto qualora tale condotta non sia temporalmente vicina all’apertura della procedura concorsuale, la plausibilità logica del ricorso a detto criterio, facendo riferimento alle circostanze del caso concreto.

Sostanzialmente nella stessa linea si sono collocate le successive pronunce di Cass. n. 16211 del 2007, n. 17033 del 2008 e n. 16050 del 2009; la quale ultima, dopo aver ribadito che il criterio della differenza tra passivo ed attivo fallimentare è in astratto inadeguato, ha nuovamente puntualizzato che quel criterio, tuttavia, può in concreto essere apprezzato, con una valutazione in fatto demandata esclusivamente al giudice di merito e congruamente motivata, ove esso costituisca parametro di riferimento per la liquidazione equitativa del danno nel caso in cui sia impossibile ricostruire i dati contabili ed individuare sulla loro scorta le conseguenze dannose riconducibili agli amministratori.

Le sentenze n.5876 del 2011 e n.7606 del 2011 e la “rottura” del filone giurisprudenziale.

In questo quadro giurisprudenziale, che negli ultimi decenni sembrava dunque essersi delineato in maniera sufficientemente coerente, un elemento distonico – a giudizio dell’ordinanza di rimessione – è stato introdotto da due sentenze intervenute nel corso dell’anno 2011, le quali, pur muovendo anch’esse dalla premessa secondo cui nell’azione di responsabilità promossa dal curatore fallimentare contro gli ex amministratori e sindaci della società fallita compete all’attore dare la prova dell’esistenza del danno, del suo ammontare e del fatto che esso sia stato causato dal comportamento illecito dei convenuti, hanno reputato che si verifichi un’inversione dell’onere della prova quando l’assoluta mancanza o l’irregolare tenuta delle scritture contabili rendano impossibile al curatore fornire la dimostrazione del predetto nesso di causalità; in questo caso – si è aggiunto – la citata condotta, integrando la violazione di specifici obblighi di legge in capo agli amministratori, risulterebbe di per sé idonea a tradursi in un pregiudizio per il patrimonio sociale (Cass. n. 5876 del 2011 e n. 7606 del 2011).

La premessa da cui muovono le sezioni unite per risolvere il contrasto.

Per le Sezioni Unite, intanto ha senso parlare dell’individuazione del danno, del nesso di causalità che deve sussistere tra il danno medesimo e la condotta illegittima ascritta all’amministratore, della liquidazione del quantum debeatur e degli oneri di prova che gravano in proposito sulle parti del processo, in quanto si sia prima ben chiarito quale è il comportamento che si imputa all’amministratore di aver tenuto e quale violazione, tra i molteplici doveri gravanti sul medesimo amministratore, quel comportamento ha integrato.

L’onere che grava sul creditore.

Le sezioni unite ricordano che secondo Cass. Sez. un. n. 577 del 2008 “l’inadempimento rilevante nell’ambito delle azioni di responsabilità da risarcimento del danno nelle obbligazioni cosiddette di comportamento non è qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisca causa (o concausa) efficiente del danno”, sicché “l’allegazione del creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma ad un inadempimento per così dire qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno”. Naturalmente sull’attore grava l’onere di allegare, e poi di provare, gli altri elementi indispensabili per aversi responsabilità civile, che sono perciò al tempo stesso elementi costitutivi della domanda risarcitoria: danno e nesso di causalità.

Ma qual è l’inadempimento in cui può incorrere l’amministratore di società?

Per le sezioni unite, un ipotetico adempimento è costituito da quelle violazioni del dovere di diligenza nella gestione dell’impresa così generalizzate da far pensare che proprio a cagione di esse l’intero patrimonio sia stato eroso e si siano determinate le perdite registrate dal curatore, o comunque quei comportamenti che possano configurarsi come la causa stessa del dissesto sfociato nell’insolvenza (ma, se avessero soltanto aggravato il dissesto, unicamente tale aggravamento potrebbe essere ricollegato a quelle violazioni).

Qualora, viceversa, -proseguono le sezioni unite – una tale ampiezza di effetti dell’inadempimento allegato non sia neppure teoricamente concepibile, la pretesa d’individuare il danno risarcibile nella differenza tra passivo ed attivo patrimoniale, accertati in sede fallimentare, risulta fatalmente priva di ogni base logica: non fosse altro perché l’attività d’impresa è intrinsecamente connotata dal rischio di possibili perdite, il cui verificarsi non può quindi mai esser considerato per sé solo un sintomo significativo della violazione dei doveri gravanti sull’amministratore, neppure quando a costui venga addebitato di esser venuto meno al suo dovere di diligenza nella gestione, appunto in quanto non basta la gestione diligente dell’impresa a garantirne i risultati positivi.

L’origine del deficit aziendale accertato nella procedura fallimentare.

Né potrebbe ragionevolmente sostenersi che il deficit patrimoniale accertato nella procedura fallimentare – in quanto tale e nella sua interezza – sia di regola la naturale conseguenza dell’essersi protratta la gestione dell’impresa in assenza delle condizioni economiche e giuridiche che giustificano la continuità aziendale: per l’ovvia considerazione che anche in questo caso non sarebbe logicamente corretto né imputare all’amministratore quella quota delle perdite patrimoniali che ben potrebbero già essersi verificate in un momento anteriore al manifestarsi della situazione di crisi in tutta la sua portata, né, soprattutto, far gravare su di lui, a titolo di responsabilità, anche le ulteriori passività che quasi sempre inevitabilmente un’impresa in crisi comunque accumula pur nella fase di liquidazione, giacché questa ovviamente non comporta l’immediata ed automatica cessazione di ogni genere di costo legato all’esistenza stessa della società in liquidazione e può ben darsi che ulteriori perdite di valore aziendale vengano generate proprio dalla cessazione dell’attività d’impresa.

Non vi è automatismo tra violazione dell’obbligo di diligenza dell’amministratore e deficit patrimoniale

Se dunque, per le ragioni appena esposte, non pare predicabile che, in difetto di specifiche ragioni che lo giustifichino, il deficit patrimoniale fatto registrare dalla società in fallimento venga automaticamente posto a carico dell’amministratore come conseguenza della violazione da parte sua del generale obbligo di diligenza nella gestione dell’impresa sociale, tanto meno una simile conclusione sarebbe giustificabile quando l’inadempimento addebitato al medesimo amministratore si riferisca alla violazione di doveri specifici, cui corrispondono comportamenti potenzialmente idonei a determinare, a carico del patrimonio sociale, soltanto effetti altrettanto specifici e ben delimitati.

L’esempio della distrazione di alcuni beni mobili della società fallita.

La Suprema Corte evidenzia che, nel caso in esame, “gli inadempimenti ascritti all’amministratore della società fallita si riferiscono unicamente alla distrazione di alcuni beni mobili custoditi in un magazzino della società, alla mancata redazione di due bilanci d’esercizio e delle dichiarazioni fiscali concernenti i medesimi esercizi ed, infine, all’omessa tenuta della contabilità sociale. Né dalla motivazione dell’impugnata sentenza, né dal ricorso, né dal controricorso emerge che altri inadempimenti siano stati allegati dal curatore. E’ del tutto ovvio che la distrazione di alcuni beni mobili di proprietà sociale sia suscettibile di riflettersi negativamente sul patrimonio della società, ma è altrettanto evidente che la relativa perdita è commisurata al valore di quei beni, o al vantaggio che da essi l’impresa avrebbe potuto ricavare; ma nulla autorizza a pensare che tale perdita s’identifichi con la differenza tra il passivo e l’attivo accertati in sede fallimentare; né la sentenza impugnata si spinge ad affermarlo”.

Il mancato rinvenimento delle scritture contabili dell’impresa.

Per la Suprema Corte, ciò che ha indotto la corte territoriale ad addossare all’amministratore, a titolo di risarcimento del danno, l’intero deficit patrimoniale della società fallita è il mancato rinvenimento delle scritture contabili dell’impresa. Ed è questo, a ben vedere, anche il punto nevralgico del contrasto giurisprudenza che l’ordinanza di rimessione ha inteso porre in luce.

Che la tenuta delle scritture contabili sia uno dei doveri gravanti sugli amministratori di società è fuori discussione, ed è quindi ugualmente indiscutibile che il mancato rinvenimento di tali scritture da parte del curatore del fallimento giustifichi l’allegazione dell’inadempimento di quel dovere da parte dell’amministratore convenuto nell’azione di responsabilità.

Ma, in coerenza con i principi generali sopra richiamati, occorre domandarsi se e quale pregiudizio sia potenzialmente ricollegabile a tale specifica violazione, in termini di danno emergente o di lucro cessante a carico del patrimonio sociale.

La circostanza che – prosegue la Corte – il mancato rinvenimento delle scritture contabili (ma lo stesso potrebbe dirsi per la loro irregolare tenuta) non consenta al curatore del fallimento di ricostruire con sufficiente certezza le vicende che hanno condotto all’insolvenza dell’impresa può esser forse addotta, essa stessa, come una causa di danno, almeno nella misura in cui ciò comporti un maggiore onere nell’espletamento dei compiti del curatore ed, eventualmente, un aggravio dei costi della procedura destinato ad incidere negativamente sull’attivo disponibile. Né può in assoluto escludersi l’eventualità di altri effetti dannosi ricollegabili alla mancanza di dette scritture; ma neppure in questo caso appare logicamente plausibile il farne discendere la conseguenza dell’insolvenza o dello sbilancio patrimoniale della società divenuta insolvente. La contabilità registra gli accadimenti economici che interessano l’attività dell’impresa, non li determina; ed è da quegli accadimenti che deriva il deficit patrimoniale, non certo dalla loro (mancata o scorretta) registrazione in contabilità.

L’impossibilità di poter ricostruire, e quindi provare, il danno sofferto.

Per la Suprema Corte, “una simile conseguenza non può esser fatta discendere nemmeno dalla considerazione che la mancanza (o l’irregolarità) delle scritture contabili impedirebbe al curatore che agisce in responsabilità contro l’amministratore della società fallita di ricostruire, e perciò di provare con sufficiente precisione, il danno sofferto dal patrimonio della medesima società (e dai suoi creditori), onde si giustificherebbe che l’onere della prova del danno e del nesso di causalità venga spostato a carico dell’amministratore convenuto, giacché è proprio l’illegittimo comportamento di costui ad impedire all’attore di assolvere quell’onere.

Tale argomentazione, come l’ordinanza di rimessione non manca di rilevare, in qualche misura si riallaccia al principio – di origine prevalentemente giurisprudenziale – della cosiddetta prossimità o vicinanza (o anche disponibilità o riferibilità) della prova, adombrato già da Sez. un. 13533/01, cit., e che si trova affermato in molteplici sentenze di legittimità (prevalentemente, ma non soltanto, in materia di responsabilità medica); principio secondo il quale l’onere della prova di circostanze ricadenti nella sfera d’azione di una sola delle parti in causa dev’essere assolto da quella medesima parte, rischiando altrimenti di rimanere irragionevolmente menomato il diritto costituzionale di azione o di difesa in giudizio dell’altra.

Per la Suprema Corte “postulare che l’amministratore debba rispondere dello sbilancio patrimoniale della società sol perché non ha correttamente adempiuto l’obbligo di conservazione delle scritture contabili ed ha reso perciò più arduo il compito ricostruttivo del curatore fallimentare equivale, in tale situazione, ad attribuire al risarcimento del danno così identificato una funzione palesemente sanzionatoria (che, in ipotesi di condotta dolosa, rischierebbe almeno in parte di sovrapporsi alle sanzioni penali già contemplate dagli artt. 216, primo comma, n. 2, e 223 I. fall.).

La possibilità (residuale) della liquidazione del danno in via equitativa.

Conclude la Suprema Corte affermando che “naturalmente, resta fermo che, se la mancanza delle scritture contabili rende difficile per il curatore una quantificazione ed una prova precisa del danno che sia di volta in volta riconducibile ad un ben determinato inadempimento imputabile all’amministratore della società fallita, lo stesso curatore potrà invocare a proprio vantaggio la disposizione dell’art. 1226 c.c. e perciò chiedere al giudice di provvedere alla liquidazione del danno in via equitativa. Né può escludersi che, proprio avvalendosi di tale facoltà di liquidazione equitativa, il giudice tenga conto in tutto o in parte dello sbilancio patrimoniale della società, quale registrato nell’ambito della procedura concorsuale. Ma, come condivisibilmente già osservato da Cass. 2538/05 e 3032/05, citt., per evitare che ciò si traduca nell’applicazione di un criterio affatto arbitrario, sarà pur sempre necessario indicare le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti pregiudizievoli concretamente riconducibili alla condotta del convenuto, nonché la plausibilità logica del ricorso a detto criterio, facendo riferimento alle circostanze del caso concreto”.

Il principio di diritto espresso dalla Sezioni Unite.

Nell’azione di responsabilità promossa dal curatore del fallimento di una società di capitali nei confronti dell’amministratore della stessa l’individuazione e la liquidazione del danno risarcibile dev’essere operata avendo riguardo agli specifici inadempimenti dell’amministratore, che l’attore ha l’onere di allegare, onde possa essere verificata l’esistenza di un rapporto di causalità tra tali inadempimenti ed il danno di cui si pretende il risarcimento. Nelle predette azioni la mancanza di scritture contabili della società, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, di per sé sola non giustifica che il danno da risarcire sia individuato e liquidato in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l’attivo accertati in ambito fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato soltanto al fine della liquidazione equitativa del danno, ove ricorrano le condizioni perché si proceda ad una liquidazione siffatta, purché siano indicate le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore e purché il ricorso a detto criterio si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto“.

Una breve riflessione.

La sentenza delle sezioni unite n.9100 del 2015 riveste notevole importanza perché risolve un contrasto interpretativo che si era venuto recentemente a delineare, contrasto che ha consentito agli organi fallimentare la possibilità di richiedere ed ottenere, da parte degli amministratori di società fallite, il risarcimento di danni che costoro, in effetti, non avevano cagionato.

Spesso accadeva, proprio come è accaduto nel caso in esame, che il curatore si limitasse a compiere una sottrazione aritmetica, detraendo dall’attivo il passivo, ed il “risultato” veniva richiesto agli amministratori, quasi che costoro fossero i responsabili di tale perdita.

Come correttamente rilevato invece dalle sezioni unite, la responsabilità degli amministratori può profilarsi solo nel momento in cui sia loro rimproverabile la specifica violazione di precisi obblighi e sia, allo stesso tempo, ravvisabile il nesso di causalità fra il danno prodotto dalla illecita gestione degli amministratori e la violazione di quei precisi doveri.

Del resto, il rischio fa parte dell’alea d’impresa. Una perdita o deficit patrimoniale non è necessariamente conseguenza di una “cattiva” gestione da parte degli amministratori, e di conseguenza non si può addebitare a costoro, quasi a titolo di responsabilità oggettiva, la determinazione di un danno “presunto” e ricavato dalle perdite patrimoniali accertate in sede fallimentare.

Come si può notare, l’onere probatorio che incombe sul curatore è abbastanza gravoso non solo e non tanto perché egli dovrà individuare quali fossero i precisi obblighi gravanti sugli amministratori e provare che tali obblighi non sono stati adempiuti, ma soprattutto perché dovrà dimostrare e provare che da quella violazione sono derivati danni, eziologicamente riconducibili a quegli inadempimenti, e, infine, che l’ammontare dei danni richiesti sia la conseguenza di quelle omissioni.

Dunque, niente più automatismo né sotto il profilo dell’an, né sotto il profilo del quantum.

E le sezioni unite, con la sentenza in evidenza, si spingono sino a negare la applicabilità, in via generale, del criterio liquidativo, potendosi fare ricorso a tale metodo solo allorquando siano indicate le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore e purché il ricorso a detto criterio si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto.

Dunque, tempi duri per i curatori a “caccia” degli amministratori delle società fallite.

avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)

managing partner at clouvell (www.clovuell.com)

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