LA SENTENZA NON E’ UN’OPERA LETTERARIA E NON SOGGIACE ALLA TUTELA DEL DIRITTO DI AUTORE. IL GIUDICE PUO’ FARE IL COPIA-INCOLLA DI UN ATTO DI PARTE O DI ALTRE SENTENZE

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Lo hanno stabilito le sezioni unite della Corte di Cassazione, con sentenza del 16/01/2015 n°642.

La Suprema Corte ha rilevato che la sentenza non è un’opera dell’ingegno di carattere creativo appartenente “alle scienze, alla letteratura, alla musica, alle arti figurative, all’architettura, al teatro e alla cinematografia” e pertanto, a norma dell’art. 2575 c.c., non può essere oggetto del diritto d’autore, ed anche perché essa viene in rilievo quale “espressione di una funzione dello Stato, come d’altro canto accade per gli atti amministrativi e legislativi nonchè per gli atti dei rispettivi procedimenti prodromici”.

Pertanto – afferma la Corte – “la sentenza può essere citata, riportata, ripresa e richiamata in altri scritti senza che si ponga alcun problema di diritto d’autore (nè sotto il profilo patrimoniale nè) sotto il profilo morale, ossia con riferimento alla rivendicazione della paternità dell’opera; nella sentenza non assume rilievo l’eventuale “originalità” dei contenuti e/o delle relative modalità espressive; nella sentenza può essere riportato, ripreso, richiamato in tutto o in parte il contenuto di altre sentenze, di atti legislativi o amministrativi ovvero di atti del processo (perizie, prove testimoniali, scritti difensivi) senza che, sotto entrambi gli aspetti (cioè sia con riguardo alla sentenza che all’atto nella stessa riportato), si ponga un problema di individuazione (in funzione rivendicativa) di paternità, come sarebbe invece possibile con riguardo ad opere letterarie o lato sensu artistiche”.

Fatta tale premessa, si pone però il problema di verificare se l’attuale ordinamento giuridico ponga al giudice, dal punto di vista processuale, un divieto o un limite di riportare all’interno della sentenza il contenuto di atti di parte o di altre sentenze.

Nel codice processuale civile del 1940 tutt’ora vigente, diversamente da quanto accadeva nel codice processuale civile del 1865 (laddove l’art. 361 c.p.c., affermava che “i motivi si reputano omessi quando la sentenza siasi puramente riferita a quelli di un’altra sentenza”), non è dato rinvenire nessuna norma che, con riguardo alla redazione della sentenza, esplicitamente o implicitamente imponga al giudice l’originalità nei contenuti o nelle modalità espositive, dovendo il giudice decidere “iuxta alligata ac probata” senza porre a base della decisione fatti e prove non ritualmente introdotti dalle parti nel processo, essendogli vietato fare riferimento alla propria scienza privata.

Tra l’altro – prosegue la Suprema Corte – il giudice “deve decidere (salvo i casi di pronuncia secondo equità) in base alla legge, tenendo in considerazione (alla luce del principio di nomofilachia introdotto dall’art. 65 dell’ordinamento giudiziario e riaffermato dalle recenti riforme del codice di rito) l’interpretazione della legge fornita dal giudice di legittimità, salvo che non ravvisi valide ragioni per discostarsene; deve infine evitare le c.d. “sentenze della terza via”, in particolare evitando di porre a fondamento della decisione questioni rilevate d’ufficio che non siano state previamente indicate alle parti ai sensi dell’art. 183 c.p.c., comma 4, e art. 384 c.p.c., comma 3”.

La motivazione della sentenza deve essere chiara, comprensibile, coerente (pertanto non solo apparente), e – prima della riforma del 2012 – si richiedeva altresì che fosse sufficiente e non contraddittoria. In nessun punto del codice risulta mai richiesta una motivazione espressa con modalità espositive “inedite”. Né risulta vietato riportare in sentenza il contenuto di scritti (altre sentenze, atti amministrativi, scritti difensivi di parte o più in generale atti processuali) la cui paternità non sia attribuibile all’estensore.

Diversamente da come accadeva nel passato, le riforme al codice di rito, succedutesi nel tempo, tendono a legittimare una motivazione concisa, funzionale. Con la riforma del 2003 il legislatore dispone che “la sentenza può essere sempre motivata in forma abbreviata, mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e la concisa esposizione delle ragioni di diritto, anche in riferimento a precedenti conformi”.

Con la riforma del 2009 (L. n. 49 del 2009), il legislatore estende a tutte le sentenze (non più solo alle ordinanze) la previsione di una motivazione (non solo concisa ma addirittura) succinta, prevede anche fuori del rito societario la possibilità di una motivazione che possa essere esposta pure mediante il “riferimento a precedenti conformi”, elimina la necessità di esporre in sentenza lo “svolgimento del processo”, sostituisce ai “motivi in fatto e in diritto della decisione” le “ragioni di fatto e di diritto della decisione”. Tutto ciò in linea anche con il nuovo codice del processo amministrativo (d.lgs. n. 104 del 2010).

I contrastanti orientamenti della Suprema Corte

Dal punto di vista giurisprudenziale alcune pronunce della Suprema Corte avevano ritenuto non sufficiente la motivazione della sentenza che si limiti a trascrivere e condividere la difesa di una delle parti senza esplicitare le ragioni di tale condivisione (v. Cass. n. 10033 del 2007) ed ha affermato la nullità della sentenza del tutto priva della esposizione dei motivi sui quali la decisione si fonda, non potendo considerarsi “motivazione” la mera adesione acritica alla tesi prospettata da una delle parti – peraltro neppure enunciata nel provvedimento – (v. Cass. n. 12542 del 2001), è anche vero che dalla lettura complessiva delle decisioni di legittimità in materia di motivazione emerge un approccio della Corte di cassazione alla motivazione della sentenza che non è più “curiale” ma piuttosto laico, funzionalista, in certa misura “disincantato”.

Secondo altre decisioni, viceversa, affermavano che “nell’ottica della semplificazione e dello “snellimento” del lavoro del giudice, pur senza sacrificare chiarezza e precisione, che non è viziata per omessa o insufficiente motivazione la sentenza stesa su modulo predisposto, quando questo sia stato utilizzato o adattato in maniera tale che la motivazione ne risulti aderente alla concretezza del caso deciso, con gli opportuni specifici riferimenti agli elementi di fatto che lo caratterizzano (v. Cass. nn. 1570 del 1984; 275 del 1995 e – più recentemente, benchè la diffusione del p.c. abbia diminuito di molto, anche nelle cause seriali, l’uso di prestampati – 24508 del 2006)”. O ancora che “soddisfa l’obbligo di motivazione previsto dall’art. 132 c.p.c., il mero riferimento da parte del giudice del merito alla giurisprudenza di legittimità in relazione alla soluzione di una questione univocamente espressa dalla Suprema Corte (v. Cass. n. 3275 del 1983) e che soddisfa tale obbligo anche la sentenza che, nell’interpretare una norma di legge, faccia integrale riferimento alla lettura data alla predetta disposizione da parte della Corte di cassazione (v. Cass. n. 2282 del 2004), chiarendo ulteriormente che è immune da vizi la motivazione della sentenza di merito con la quale il giudice si limiti a riportare l’orientamento, sulla questione discussa e decisa, della giurisprudenza di legittimità, aggiungendo di condividerlo e di volervisi uniformare, atteso che anche in tal caso ed in tal modo risultano esposte, sia pure concisamente, le ragioni giuridiche della decisione (v. Cass. n. 3905 del 1999)”.

Infine, secondo altre decisioni, “il giudice non è tenuto a giustificare diffusamente le ragioni della propria adesione alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, ove manchino contrarie argomentazioni delle parti o esse non siano specifiche, potendo, in tal caso, limitarsi a riconoscere quelle conclusioni come giustificate dalle indagini svolte dall’esperto e dalle spiegazioni contenute nella relativa relazione” (v. tra le altre Cass. nn. 2114 del 1995; 26694 del 2006; 10222 del 2009 e 28647 del 2013).

Come può definirsi la sentenza oggi? Secondo il Supremo Collegio, la sentenza oggi è “funzionale, flessibile, deformalizzata, improntata al contemperamento delle esigenze di effettività della tutela ed efficienza del sistema attraverso la conciliazione, in apparenza difficile, tra una motivazione comprensibile e idonea ad esplicitare il ragionamento decisorio che sia tuttavia concisa, succinta ed in ogni caso tale da giungere in tempi (più) ragionevoli”.

In definitiva, per il diritto positivo non si pone un problema di “originalità” ovvero di “paternità” con riguardo alle modalità espressive utilizzate in motivazione, tanto meno con riguardo ai contenuti di essa, e ciò in quanto la sentenza è un atto pubblico, espressione di una funzione pubblica, non un’opera letteraria.

La sentenza è l’atto conclusivo di un processo nel quale hanno agito più soggetti, ed il compito del giudice è proprio quello di valutare, tra i fatti dedotti e i diritti vantati, le ragioni sostenute e le pretese avanzate, le prove addotte e le argomentazioni spiegate, quel che di volta in volta sia da ritenersi giuridicamente corretto e “verificato” in fatto, quindi quanto risulti effettivamente meritevole di tutela da parte dell’ordinamento.

Sostiene la suprema Corte che “una volta assunta la decisione ed individuate le ragioni, giuridiche e di fatto, che la sostengono, deve pertanto riconoscersi al giudice la possibilità di esporle nel modo che egli reputi più idoneo – purchè in lingua italiana, succintamente ed in maniera chiara, univoca ed esaustiva -, perciò anche (se lo ritiene) attraverso le “voci” dei soggetti che hanno partecipato al processo (parti, periti). E può farlo sia richiamando i relativi atti sia direttamente riportandoli (in tutto o in parte) nella sentenza, e, in quest’ultimo caso, può utilizzare indifferentemente le virgolette o la tecnica del discorso indiretto, perchè, trattandosi di atti anch’essi non costituenti opere letterarie e non protetti dalla disciplina del diritto d’autore, non rileva che ne sia riportato esattamente il testo virgolettato con indicazione della fonte, e, al contempo, non importa che possano sorgere equivoci in ordine alla “paternità” di quanto riportato, e ciò non solo perchè dalla logica del testo potrebbe essere comunque comprensibile la fonte (come nel caso di specie, in cui l’estensore, prima di riportare in sentenza – sia pure senza virgolette – il contenuto delle controdeduzioni della appellata, ha esplicitamente premesso di fare proprie le argomentazioni esposte dall’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate) ma soprattutto perchè, come già rilevato, per la sentenza, che non è opera letteraria, non conta la paternità del testo nelle sue modalità espressive ma l’attribuibilità al giudice dei suoi contenuti, derivante dal fatto che quei contenuti sono stati “fatti propri” dal suddetto giudice nel momento in cui ha ritenuto di riportarli in sentenza per rendere ragione della decisione assunta, assumendosene la relativa responsabilità”.

La Suprema Corte poi precisa che le considerazioni sopra esposte non valgono per il giudice penale ma “ciò non per avere questo giudice valutato che le suddette considerazioni non trovino riscontro nella legislazione processuale penale, ma semplicemente perchè, nei limiti della devoluzione occasionata dal ricorso in esame e delle attribuzioni di queste sezioni unite civili, la presente indagine è stata condotta esclusivamente alla stregua del codice processuale civile e della giurisprudenza ad esso riferibile”.

L’incidenza sul piano disciplinare.

Le precedenti considerazioni non valgono sul piano disciplinare, dovendosi escludersi che sussista discontinuità con la sentenza n. 10627 del 2014 nella quale le sezioni unite hanno confermato la sanzione irrogata ad un giudice per le indagini preliminari che aveva motivato due provvedimenti disponenti misura cautelare (rispettivamente relativi a nove e diciotto indagati) riportando in essi il testo della richiesta del Pubblico Ministero e (in uno dei due) anche parti di motivazione di ordinanze cautelari emesse nell’ambito di differenti vicende giudiziarie. “E ciò non per la diversità delle valutazioni richieste nel giudizio disciplinare nè per il fatto che nella specie viene in considerazione un provvedimento del giudice penale, ma per il fatto che, come risultante dalla citata sentenza, nel caso di specie il giudice non si era neppure curato di “fare proprie”, in modo da renderle a sè riferibili, le considerazioni espresse nella richiesta del P.M. ricopiata nel proprio provvedimento (avendo riportato – senza virgolettature e senza adattamento – passi della suddetta richiesta contenenti espressioni come “presente richiesta cautelare”, “questo P.M.”, “codesto GIP”, “si richiede la cattura”) ed inoltre aveva ricopiato passi della motivazione di altri provvedimenti riguardanti casi diversi da quello trattato, facendo riferimento nella parte conclusiva dell’ordinanza a fatti non risultanti dalla contestazione”.

E neppure – prosegue la Corte – può ravvisarsi sostanziale discontinuità con riguardo alla sentenza n. 10628 del 2014 di queste SU (relativa a disciplinare a carico di magistrato che in due sentenze civili aveva motivato la decisione riportando il contenuto della comparsa conclusionale di una delle parti), anche se potrebbe indurre a diversa valutazione il tenore della massima ufficiale (in cui viene riportato uno degli obiter della sentenza, la quale peraltro prevede la cassazione senza rinvio della pronuncia disciplinare di condanna), dovendo inoltre rilevarsi che in altro obiter della decisione in questione vengono espressi, sia pure in nuce, concetti sviluppati in questa sede (in particolare laddove, nella citata decisione, si afferma che “le esigenze di celerità e le sempre crescenti possibilità offerte dagli strumenti informatici, in una alla non necessità che il dictum giurisdizionale costituisca un prodotto in ogni parte originale, impongono di attenuare il rigore della ricorrente enunciazione secondo la quale invece la rilevanza disciplinare può escludersi solo quando il pedissequo recepimento di un atto difensivo concerna parti meramente descrittive”)”.

Il principio di diritto delle Sezioni Unite.

Dall’argomentare che precede deve trarsi il seguente principio di diritto: “Nel processo civile – ed in quello tributario, in virtù di quanto disposto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1, comma 2 – non può ritenersi nulla la sentenza che esponga le ragioni della decisione limitandosi a riprodurre il contenuto di un atto di parte (ovvero di altri atti processuali o provvedimenti giudiziari) eventualmente senza nulla aggiungere ad esso, sempre che in tal modo risultino comunque attribuibili al giudicante ed esposte in maniera chiara, univoca ed esaustiva, le ragioni sulle quali la decisione è fondata. E’ inoltre da escludere che, alla stregua delle disposizioni contenute nel codice di rito civile e nella Costituzione, possa ritenersi sintomatico di un difetto di imparzialità del giudice il fatto che la motivazione di un provvedimento giurisdizionale sia, totalmente o parzialmente, costituita dalla copia dello scritto difensivo di una delle parti”.

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avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)

managing partner at clouvell (www.clouvell.com)

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