Impugnativa giudiziale del licenziamento: da quando decorre il termine.

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Il termine per l’impugnativa giudiziale del licenziamento decorre dalla spedizione (e non dalla ricezione) della comunicazione contenente l’impugnativa stragiudiziale.

Lo ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione – sezione lavoro – con sentenza 20 marzo 2015, n. 5717

Il caso

Impugnativa giudiziale del licenziamento: da quando decorre il termine.

Impugnativa giudiziale del licenziamento: da quando decorre il termine.

La corte di appello, riformando la sentenza di primo grado, aveva dichiarato la inefficacia del licenziamento intimato ad un lavoratore considerando tempestiva l’impugnazione del licenziamento proposta.

In particolare, secondo la Corte territoriale, era stato rispettato il termine di 270 giorni di cui all’art. 6 della legge 604 del 1966 come modificato dall’art. 32 della legge n. 183 del 2010 (cd. Collegato lavoro, termine  ridotto a 180 giorni dalla riforma Fornero), che prevede il termine di sessanta giorni per l’impugnazione del licenziamento e l’inefficacia dell’impugnazione stessa se non seguita entro i successivi duecentosettanta (ora centottanta) giorni dal deposito del ricorso in sede giudiziale.

La Corte, più precisamente, ha considerato che il termine di duecentosettanta giorni per la proposizione dell’impugnativa giudiziale andasse sommato al termine di sessanta giorni per l’impugnativa stragiudiziale, diguisachè l’azione giudiziale poteva considerarsi tempestiva se proposta entro 330 giorni dall’intimazione del licenziamento.

Da qui il ricorso per cassazione del datore di lavoro.

L’impugnativa stragiudiziale si considera effettuata con la consegna dell’atto all’ufficio pubblico che cura la spedizione.

Secondo la Suprema Corte, considerato che “a norma dell’art. 6, primo comma, l. n. 604 del 1966, “il licenziamento dev’essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta…con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore…“, per l’impedimento di questa decadenza è sufficiente la consegna del l’atto all’ufficio pubblico che cura la spedizione, come ha stabilito Cass. Sez. Un. 14 aprile 2010 n.8830, non rilevando perciò il giorno di ricezione da parte del datore di lavoro.

Il termine di impugnativa giudiziale prima del “collegato lavoro”.

Prima che il secondo comma di detto art. 6 venisse novellato dall’art. 32 l. n. 183 del 2010, una volta impedita la decadenza, il potere di impugnare in via giudiziale il licenziamento veniva assoggettato, a norma dell’art. 2967 cod. civ., al termine quinquennale di prescrizione di cui all’art. 442, primo comma, cod. civ.

La riduzione del termine ad opera del “collegato lavoro”

Ci si rese conto, però, che tale termine quinquennale si poteva prestare ad “abuso” da parte del lavoratore in quanto, per converso, la posizione del datore di lavoro rimaneva troppo incerta e sottoposta alla possibilità dell’ordine di reintegrazione da parte del giudice e della condanna a risarcire un danno che aumentava col trascorrere del tempo.

Fu così che il termine di impugnativa giudiziale venne ridotto a duecentosettanta giorni. In particolare, l’articolo 32 comma 1°  legge n°183/2010 (cd. collegato lavoro) stabilì che “L’impugnazione (stragiudiziale) è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di duecentosettanta (poi ridotto a centottanta dall’art. 1, comma 38, L n.92 del 2012 – cd. riforma Fornero) giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro“.

Il problema affrontato dalla sentenza della Suprema Corte in argomento.

La questione affrontata dalla sentenza in esame è se la decorrenza di quest’ultimo termine inizi dalla spedizione dell’impugnazione stragiudiziale, oppure, come deciso dalla Corte d’appello, dallo scadere del termine di sessanta giorni di cui all’art. 6 citato.

La soluzione adottata dalla Corte

Secondo la Suprema Corte l’interpretazione corretta è quella per la quale il temine di impugnazione giudiziale decorrere dalla spedizione dell’atto contenente l’impugnativa stragiudiziale in quanto “l’esigenza di celerità, intesa, come s’è detto, a tutelare l’interesse del datore di lavoro alla certezza del rapporto, porta a precisare che il termine debba decorrere dalla spedizione e non dalla ricezione dell’atto”.

Il principio di diritto affermato dalla Corte:

La lettera della disposizione contenuta nell’art. 32, comma 1, l. n.183 del 2010, modificato dall’art. 1, comma 38, l. n. 92 del 2012 che commina l’inefficacia “dell’impugnazione” extragiudiziale non seguita da tempestiva azione giudiziale, dimostra come dal primo dei due atti debba decorrere il termine per compiere il secondo, e non dalla fine dei sessanta giorni concessi per l’impugnazione stragiudiziale.

L’esigenza di celerità, intesa a tutelare l’interesse del datore di lavoro alla certezza del rapporto, indica ancora che il termine debba decorrere dalla spedizione e non dalla ricezione dell’atto.

Una breve riflessione

Se può certamente condividersi il primo dei due principi di diritto espressi dalla Corte di legittimità, altrettanto non può dirsi, a parere di chi scrive, del secondo.

Nella specie, la Suprema Corte assume quale parametro di riferimento l’interesse del datore di lavoro alla certezza del rapporto, ma omette di considerare che proprio il datore di lavoro potrebbe “sfruttare” tale interpretazione a suo vantaggio.

PIù precisamente, il datore di lavoro che ha intimato il licenziamento potrebbe non ritirare subito la raccomandata inviatagli dal lavoratore licenziato (contenente l’impugnativa stragiudiziale) rinviando tale incombenza a ridosso del termine per la compiuta giacenza, ovvero non ritirarla affatto.

Cosicchè, quando il lavoratore avrà contezza del perfezionamento della comunicazione di impugnativa del licenziamento, il tempo (anche oltre un mese, tale è il tempo che una raccomandata non ritirata venga restituita al mittente) sarà trascorso “a carico” del lavoratore, in quanto egli avrà minore tempo per proporre l’azione giudiziaria.

L’impugnativa del licenziamento è un atto tipicamente recettizio. Il momento perfezionativo è quello della ricezione. Vero è che in base alla nota sentenza 8830/2010 delle sezioni unite basta la spedizione dell’impugnazione stragiudiziale entro i sessanta giorni per evitare la decadenza, ma ciò presuppone comunque che la comunicazione sia validamente eseguita. In altri termini è la avvenuta regolare ricezione della comunicazione che completa il procedimento “notificatorio”.

La interpretazione data all’epoca delle sezioni unite era però una interpretazione a tutela del lavoratore. L’interpretazione della suprema Corte di cui alla sentenza in argomento, invece, è a favore del datore di lavoro.

Un tempo, come abbiamo visto, il lavoratore aveva cinque anni di tempo per impugnare il licenziamento. Certo, forse tale lasso di tempo ero troppo esteso e forse ha fatto bene il legislatore col collegato lavoro a ridurlo entro termini ben definiti (270 giorni).

Come abbiamo visto, tale termine è stato ulteriormente ridotto a 180 giorni dalla riforma Fornero. Bene. La determinazione dei termini è frutto di politica legislativa e non possiamo dire nulla a riguardo.

Però l’interpretazione fornita dalla Suprema Corte in forza della quale il termine di centottanta giorni decorre dalla data di spedizione e non anche da quello di ricezione della comunicazione contenente l’impugnativa di licenziamento, interpretazione adottata per “tutelare l’interesse del datore di lavoro alla certezza del rapporto” appare, alla stregua della stratificazione normativa della disciplina, poco in linea con la tutela del lavoratore alla certezza del rapporto di lavoro ed alla certezza dei rapporti giuridici.

Anche perché tale interpretazione “travolgerà” molti procedimenti di impugnativa del licenziamento tuttora in corso le cui parti licenziate hanno fatto “affidamento” ad un’interpretazione letterale della norma.

Difatti, è la stessa Corte di legittimità a precisare, alla fine della sentenza, che “le incertezze giurisprudenziali sulla questione affrontata inducono alla compensazione fra le parti delle spese dell’intero processo”.

Speriamo che, a tutela del lavoratore, intervenga presto una decisione di segno contrario.

avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)

managing partner at clouvell (www.clouvell.com)

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