Illegittimità del patto di prova e licenziamento: quali conseguenze?

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Il licenziamento intimato sull’erroneo presupposto della validità del patto di prova, in realtà affetto da nullità, riferendosi ad un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, non è sottratto alla applicazione della disciplina limitativa dei licenziamenti, per cui la tutela da riconoscere al prestatore di lavoro sarà quella prevista dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, qualora il datore di lavoro non alleghi e dimostri la insussistenza del requisito dimensionale, o quella riconosciuta dalla legge n. 604 del 1966, in difetto delle condizioni necessarie per la applicabilità della tutela reale.

Lo ha affermato la Suprema Corte di Cassazione – sezione lavoro – con sentenza n. 17921 del 12 settembre 2016

Il caso 

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Illegittimità del patto di prova e licenziamento: quali conseguenze?

La Corte di Appello di Messina, in parziale riforma della sentenza del locale Tribunale, ha integralmente accolto le domande proposte da un lavoratore nei confronti del datore di lavoro e, dichiarata la nullità del patto di prova apposto al contratto a tempo indeterminato, ha annullato “la risoluzione del rapporto e l’atto di recesso” condannando l’ente di formazione alla “riammissione in servizio e alla corresponsione delle retribuzioni dalla cessazione del rapporto fino alla effettiva reintegrazione”.

La Corte territoriale ha premesso che nei due anni immediatamente antecedenti la stipula del contratto il lavoratore, quale collaboratore a progetto, aveva svolto nei corsi di formazione professionale le medesime mansioni di docente di materie informatiche. Ha, quindi, ritenuto privo di causa il patto di prova, in quanto la sperimentazione era già avvenuta con esito positivo, anche se nel periodo precedente non era stato instaurato un vero e proprio rapporto di lavoro. Dalla nullità del patto la Corte, poi, ha fatto discendere la “automatica conversione della assunzione in definitiva sin dall’inizio e la vanificazione degli effetti del recesso”.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il datore di lavoro sulla base di due motivi, illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c.. Il lavoratore ha depositato procura ed il difensore ha discusso oralmente la causa, concludendo per il rigetto del ricorso ed eccependo anche l’inammissibilità del secondo motivo.

I motivi di ricorso

Il primo motivo di ricorso denuncia ex art. 360 n. 3 c.p.c. “violazione degli artt. 2096, 2697, 2729 c.c.” e censura il capo della decisione relativo alla ritenuta nullità del patto di prova. Sostiene il ricorrente che il patto, in quanto destinato alla verifica non solo delle qualità professionali ma anche del comportamento e della professionalità complessiva del lavoratore, è ammissibile ogniqualvolta risponda ad una “finalità apprezzabile”, sussistente nella fattispecie in considerazione della differenza quantitativa e qualitativa delle mansioni svolte sulla base dei contratti, di diversa natura, succedutisi nel tempo. Precisa al riguardo che la collaborazione a progetto aveva riguardato un’unica materia e l’insegnamento era stato reso in corsi destinati ad allievi in possesso della sola licenza media inferiore. Il rapporto di lavoro subordinato, invece, oltre a comportare un maggior impegno in termini temporali, era stato instaurato per l’attività di docenza di sei materie in corsi destinati a studenti che avessero conseguito il diploma di scuola media superiore.

Con il secondo motivo si censura la sentenza impugnata per “violazione dell’art. 1223 c.c. e dell’art. 8 della legge n. 604/1966”. Il ricorrente, richiamando giurisprudenza della Suprema Corte, evidenzia che la nullità del patto di prova non determina “la sanzione risarcitoria di diritto comune” in quanto il licenziamento resta assoggettato alla disciplina sua propria e, quindi, la illegittimità comporta, in caso di insussistenza del requisito dimensionale, le conseguenze previste dall’art. 8 della legge richiamata in rubrica. Aggiunge che il Tribunale di Messina, proprio in considerazione della incontestata inapplicabilità della tutela reale, aveva condannato il datore di lavoro al pagamento di tre mensilità.

La decisione della Suprema Corte

Il primo motivo viene ritenuto infondato nella parte in cui denuncia la violazione dell’art. 2096 c.c., e, per il resto, viene ritenuto, inammissibile.

Ricordano gli Ermellini che la giurisprudenza della Suprema Corte è consolidata nell’affermare che la causa del patto di prova è quella di tutelare l’interesse di entrambe le parti del rapporto a sperimentarne la convenienza, sicchè detta causa risulta insussistente ove la verifica sia già intervenuta, con esito positivo, per le medesime mansioni, in virtù di prestazione resa dal lavoratore, per un congruo lasso di tempo, a favore dello stesso datore di lavoro ( in tal senso fra le più recenti Cass. 17,7.2015 n. 15059; Cass. 25.3.2015 n. 6001; Cass, 5.3.2015 n. 4466).

E’ stato anche precisato – proseguono i giudici di piazza Cavour – che il principio è applicabile ogniqualvolta il prestatore venga chiamato a svolgere la medesima attività, senza che rilevino la natura e la qualificazione dei contratti stipulati in successione (Cass. 29.7.2005 n. 15960) nonché la diversa denominazione delle mansioni (Cass. 1.9.2015 n. 17371) e senza che in sede di legittimità possa essere censurato l’accertamento di eguaglianza effettiva delle mansioni, in quanto riservato “al sovrano apprezzamento del giudice di merito” (Cass. n. 17371/2015 e Cass. 6001/2015).

Pertanto, a parere dei giudici di legittimità, la sentenza impugnata è conforme ai principi di diritto sopra richiamati, dei quali ha fatto corretta applicazione, evidenziando che l’attività di insegnamento affidata al lavoratore negli anni 2005 e 2006, nell’ambito del corso per operatore su computer, era del tutto sovrapponibile a quella oggetto del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato stipulato nell’anno 2007.

Perché il motivo viene ritenuto anche in parte inammissibile?

Per gli Ermellini, inoltre, il motivo, nella parte in cui censura detta valutazione, sottolineando le differenze che la Corte territoriale non avrebbe apprezzato, esula dalla denunciata violazione di legge e si risolve nella inammissibile sollecitazione di una diversa valutazione delle risultanze di causa, non consentita in sede di legittimità.

Il vizio di violazione di norme di diritto.

Al riguardo la Corte Suprema ribadisce che il vizio di violazione di norme di diritto consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione, nel rispetto della disciplina applicabile ratione temporis. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. 26.3.2010 n. 7394 e negli stessi termini Cass. 10.7.2015 n. 14468).

Ne discende che per le sentenze pubblicate, come nella fattispecie, dal trentesimo giorno successivo alla entrata in vigore della legge 7 agosto 2012 n.134 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11.8.2012), di conversione del d.l. 22 giugno 2012 n. 83, la motivazione è censurabile in sede di legittimità solo nella ipotesi, che qui non ricorre, di “omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti”.

Il secondo motivo viene accolto.

Viceversa, per i giudici di legittimità, è fondato il secondo motivo perché erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto che alla nullità del patto di prova dovessero conseguire, in modo automatico, la vanificazione degli effetti del recesso, la ricostituzione del rapporto, il risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni maturate dalla data della risoluzione sino a quella della riammissione in servizio.

La questione di diritto (e non di fatto) non può essere ritenuta inammissibile per novità.

Premettono i giudici di piazza Cavour che la censura, con la quale si sostiene, attraverso il richiamo a Cass. 5 marzo 2013 n. 5404, che le conseguenze del licenziamento intimato in presenza di un patto di prova affetto da nullità, dovevano essere quelle previste dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966, applicato dal giudice di primo grado, e non quelle “di diritto comune”, prospetta una questione di diritto e non di fatto, sicché la stessa non può essere ritenuta inammissibile per novità, tanto più che le deduzioni del ricorso sono volte a contrastare la motivazione della sentenza impugnata.

L’oggetto della tutela del patto di prova.

E’ pacifico che il patto di prova tutela l’interesse di entrambe le parti a sperimentare la convenienza del rapporto di lavoro, sicché, proprio in ragione di detto interesse, l’art. 2096 c.c. consente il recesso ad nutum che permette al datore di lavoro di recedere dal rapporto, senza alcun obbligo motivazionale, qualora sia insoddisfatto dell’esito della sperimentazione.

A sua volta l’art. 10 della legge n. 604 del 1966 – proseguono gli Ermellini – nello stabilire che “le norme della presente legge (sui licenziamenti individuali) si applicano nei confronti dei prestatori di lavoro … assunti in prova … dal momento in cui l’assunzione diviene definitiva”, sottrae il rapporto nel quale il patto di prova sia stato validamente inserito alla applicazione della disciplina limitativa del licenziamento, con la conseguenza che “il recesso del datore (licenziamento) durante il periodo di prova rientra così nella cosiddetta area della recedibilità acausale, o ad nutum: il datore è titolare di un diritto potestativo, il cui esercizio legittimo non richiede giustificazione” ( Cass. S.U. 2.8.2002 n.11633).

Peraltro detta recedibilità, libera sia pure nei limiti indicati dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, presuppone che il patto di prova sia stato validamente apposto, sicché ove difettino i requisiti di sostanza e di forma richiesti dalla legge, la nullità della clausola, in quanto parziale, non estendendosi all’intero contratto, determina “la conversione ( in senso atecnico) del rapporto in prova in rapporto ordinario.., e trova applicazione, ricorrendo gli altri requisiti, il regime ordinario del licenziamento individuale” ( Cass. 18.11.2000 n. 14950).

In altri termini – precisano i giudici di piazza Cavour – il licenziamento intimato per asserito esito negativo della prova, sull’erroneo presupposto della validità della relativa clausola o in forza di errata supposizione della persistenza del periodo di prova, in realtà già venuto a scadenza, non può iscriversi nell’eccezionale recesso ad nutum di cui all’art. 2096 c.c. bensì, non trovando applicazione l’art. 10 della legge n. 604 del 1966, ” consiste in un ordinario licenziamento soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza o meno della giusta causa o giustificato motivo” ( Cass. 19.8.2005 n. 17045 e negli stessi termini Cass. 22.3.1994 n. 2728).

La nullità del patto di prova non vanifica gli effetti del recesso.

Di conseguenza, nella fattispecie, ha errato la Corte territoriale nel ritenere che la nullità del patto di prova vanificasse gli effetti del recesso determinando, per ciò solo, la ricostituzione del  rapporto, dovendo, al contrario, trovare applicazione la disciplina ordinaria sui licenziamenti e, quindi, in presenza dei requisiti rispettivamente richiesti, la tutela assicurata dalla legge n. 604 del 1966 o dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970.

Il principio di diritto.

Da qui la cassazione della sentenza impugnata con rinvio alla Corte territoriale in diversa composizione, che procederà ad un nuovo esame attenendosi a quanto sopra indicato ed al principio di diritto di seguito enunciato: “il licenziamento intimato sull’erroneo presupposto della validità del patto di prova, in realtà affetto da nullità, riferendosi ad un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, non è sottratto alla applicazione della disciplina limitativa dei licenziamenti, per cui la tutela da riconoscere al prestatore di lavoro sarà quella prevista dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, qualora il datore di lavoro non alleghi e dimostri la insussistenza del requisito dimensionale, o quella riconosciuta dalla legge n. 604 del 1966, in difetto delle condizioni necessarie per la applicabilità della tutela reale”.

Una breve riflessione

Sentenza interessante quella in rassegna. Secondo i giudici di piazza Cavour, la nullità del patto di prova non si estende all’intero contratto, ma determina la conversione (in senso atecnico) del rapporto in prova in rapporto ordinario.

Ne consegue che in caso di recesso sull’erroneo presupposto della validità del patto di prova, il lavoratore (illegittimamente in prova) potrà contare, anzi dovrà fare i conti con la disciplina limitativa dei licenziamenti, potendo usufruire, in altri termini, della tutela reale o della tutela obbligatoria a seconda della specifica ipotesi normativa violata.

Bocciata, dunque, la tesi della Corte territoriale che aveva ritenuto che alla nullità del patto di prova dovessero conseguire, in modo automatico, la vanificazione degli effetti del recesso, la ricostituzione del rapporto, il risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni maturate dalla data della risoluzione sino a quella della riammissione in servizio.

Il principio espresso, dunque, contempera e tutela, al tempo stesso, gli interessi del lavoratore e quelli del datore di lavoro: il primo avrà il diritto a vedersi riconosciuta la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a cagione della illegittimità del patto di prova ed il diritto a vedersi riconosciuta la illegittimità del licenziamento; il secondo potrà contare, in caso di recesso dichiarato illegittimo a causa della nullità del patto di prova, sulla disciplina generale in tema di licenziamento illegittimo senza essere costretto a dover, necessariamente, e quindi automaticamente, riammettere il lavoratore in servizio, ricostituirgli il rapporto e corrispondergli un risarcimento pari alle retribuzioni maturate dalla data della risoluzione sino a quella della riammissione in servizio.

avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)

managing partner at clouvell (www.clouvell.com)

 

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