Il lavoratore che durante la malattia lavora in favore di terzi non può essere licenziato

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Lo ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione civile sezione lavoro con sentenza 3 marzo 2015 n. 4237

Il caso.

La vicenda riguarda un lavoratore destinatario di un provvedimento di licenziamento per giusta causa. In particolare, il lavoratore, durante il periodo di assenza per infortunio (trauma discorsivo del polso destro) svolgeva un’attività lavorativa in favore di terzi. Il Tribunale rigettava l’impugnativa del licenziamento ed anche la Corte rigettava l’appello precisando che “dall’istruttoria svolta è emerso che, almeno in una giornata (27 ottobre 2004) il lavoratore ha svolto, nel corso di un periodo di assenza dal lavoro per un infortunio, una attività lavorativa analoga a quella propria del rapporto di lavoro con la AUCHAN presso un’altra pescheria tra le ore 13 e le ore 17,30, quindi in un orario in cui avrebbe dovuto lavorare presso la AUCHAN” e che pertanto, “in base alla giurisprudenza di legittimità, si deve ritenere che il comportamento del lavoratore abbia integrato una violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, oltrepassando i limiti entro i quali può essere consentita al dipendente la prestazione di attività lavorativa anche a favore di terzi nel periodo di assenza per malattia”.

Il lavoratore in malattia che lavora in favore di terzi non può essere licenziato

l lavoratore in malattia che lavora in favore di terzi non può essere licenziato

Da qui il ricorso per cassazione.

Le doglianze  del lavoratore.

Secondo il lavoratore la sentenza impugnata “non avrebbe esattamente inquadrato la specificità della fattispecie, come si desumerebbe anche dalla giurisprudenza di legittimità ivi richiamata, tutta relativa ad ipotesi di lavoratori assunti con contratti full-time e non part-time nonchè dalla mancata considerazione di fatto che il lavoratore non avrebbe potuto rientrare al lavoro presso l’AUCHAN prima della scadenza del periodo indicato dall’INAIL. Nè va omesso di considerare che tra le sentenze richiamate dalla Corte territoriale qualcuna riguarda l’ipotesi di simulazione dello stato patologico, che qui non ricorre come dimostrano i referti radiologici in atti”.

Il ragionamento della Suprema Corte.

Secondo la Suprema Corte  non sussiste per il lavoratore assente per malattia un divieto assoluto di prestare – durante tale assenza – attività lavorativa in favore di terzi, purchè questa non evidenzi una simulazione di infermità, ovvero importi violazione al divieto di concorrenza, ovvero ancora, compromettendo la guarigione del lavoratore, implichi inosservanza al dovere di fedeltà imposto al prestatore d’opera.

Cosa deve provare il datore di lavoro per giustificare il licenziamento.

Affinchè il licenziamento per giusta causa sia legittimo occorre provare che il lavoratore abbia agito fraudolentemente in danno del datore di lavoro, simulando la malattia per assentarsi in modo da poter espletare un lavoro diverso o lavorando durante l’assenza con altre imprese concorrenti (con quella cui è contrattualmente legato) oppure – anzichè collaborare al recupero della salute per riprendere al più presto la propria attività lavorativa – abbia compromesso o ritardato la propria guarigione strumentalizzando così il suo diritto al riposo per trame un reddito dal lavoro diverso in costanza di malattia ed in danno del proprio datore di lavoro (vedi, per tutte: Cass. 8 ottobre 1985, n. 4866; Cass. 19 dicembre 2000, n. 15916).

Cosa deve provare il lavoratore al quale sia contestato in sede disciplinare di aver svolto un altro lavoro durante un’assenza per malattia.

Il lavoratore, in tal caso, deve dimostrare la compatibilità dell’attività con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa contrattuale e la sua inidoneità a pregiudicare il recupero delle normali energie psico-fisiche, restando peraltro le relative valutazioni riservate al giudice del merito all’esito di un accertamento da svolgersi non in astratto ma in concreto (Cass. 19 dicembre 2000, n. 15916 cit.; Cass. 13 aprile 1999, n. 3647).

Nella specie, la Suprema Corte cassa la sentenza in quanto la sanzione espulsiva irrogata risulta sproporzionata al comportamento stesso.

I principi di diritti ricordati dalla Suprema Corte

La Suprema Corte, evidenziando che nella specie il lavoratore avrebbe meritato, al più, una sanzione conservativa, non perde occasione per soffermarsi su alcuni principi di diritto:

1) la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell’elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale, dall’altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare; quale evento “che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto” (vedi tra le molte: Cass. 18 settembre 2012, n. 15654);

2) la giusta causa di licenziamento integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall’interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici e giuridici (vedi, tra le tante: Cass. 26 aprile 2012, n. 6498).

 avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)

managing partner at clouvell (www.clouvell.com)

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