Dovere di diligenza, obbligo di fedeltà e nozione di giusta causa nel licenziamento

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Non integra violazione del dovere di diligenza, di cui all’art. 2104 c.c., l’omissione, da parte del lavoratore, di una condotta che non sia prevista tra quelle contrattualmente dovute né comunque risulti, ai fini della esecuzione più utile della prestazione di lavoro, ad esse complementare o accessoria.

Non integra violazione dell’obbligo di fedeltà, di cui all’art. 2105 c.c., anche inteso come generale dovere di leale cooperazione nei confronti del datore di lavoro a tutela degli interessi dell’impresa, l’omissione da parte del lavoratore di condotte che, oltre a non rientrare nell’ambito delle prestazioni contrattualmente dovute, siano connesse a superiori livelli di controllo e di responsabilità, in presenza di un assetto dell’impresa caratterizzato da accentuata complessità e articolazione organizzativa.

In tema di licenziamento per giusta causa, deve aversi riguardo, nella valutazione dell’idoneità della condotta extra-lavorativa del dipendente ad incidere sulla persistenza dell’elemento fiduciario, anche alla natura e alla qualità del rapporto, al vincolo che esso comporta e al grado di affidamento che sia richiesto dalle mansioni espletate.

Lo ha afferma la Suprema Corte di Cassazione – sezione lavoro – con sentenza n. 1978 del 2 febbraio 2016

Il caso

Dovere di diligenza, obbligo di fedeltà e nozione di giusta causa nel licenziamento

Dovere di diligenza, obbligo di fedeltà e nozione di giusta causa nel licenziamento

Con sentenza emessa nel 2012, la Corte di appello di Roma confermava la sentenza del Tribunale che aveva respinto la domanda di un lavoratore volta ad ottenere l’annullamento del licenziamento per giusta causa intimatogli dalla propria Azienda per avere il ricorrente omesso di informare il proprio datore di lavoro, pur essendone a conoscenza, della reiterata presenza di una persona in evidente stato di bisogno e con gravi problemi psichici all’interno dei locali aziendali ed in orario di lavoro dei dipendenti nonché del fatto che detta persona pernottasse nei mezzi aziendali; per essersi intrattenuto con la medesima, come altri dipendenti, in attività non inerenti alla prestazione lavorativa; per avere ripetutamente approfittato dei favori sessuali della persona in questione, all’inizio e alla fine dei turni di lavoro, all’interno della propria autovettura parcheggiata nei pressi dei locali aziendali.

La sentenza della Corte di appello

La Corte di appello, per quanto di interesse, osservava, in primo luogo, che il giudice di primo grado aveva operato le proprie valutazioni con specifico riguardo ai fatti contestati al ricorrente e alle relative risultanze probatorie, senza richiamare – diversamente da quanto sostenuto dall’appellante – il provvedimento cautelare che aveva rigettato l’impugnazione proposta da altro dipendente licenziato nell’ambito della stessa vicenda; disattendeva, quindi, il motivo di gravame fondato sulla disparità di trattamento, che nella specie si sarebbe verificata, tra dipendenti della stessa azienda per i medesimi fatti, posto che il principio di parità di trattamento nei rapporti di lavoro subordinato deve escludersi in maniera particolare nella materia delle valutazioni disciplinari e comunque la semplice conoscenza che anche altri dipendenti potessero avere della presenza di S.C. all’interno del deposito, nonché del fatto che la stessa vi pernottasse, non valeva ad equipararne la posizione a quella dell’appellante, tenuto conto delle condotte complessive che gli erano state contestate; riteneva dimostrati i fatti di cui alla lettera di licenziamento, sulla scorta delle dichiarazioni rese da altro dipendente in sede di indagini interne, non smentite da alcun significativo elemento di prova di segno contrario e che anzi trovavano riscontro nelle stesse dichiarazioni dell’appellante. La Corte rilevava, infine, la gravità dei fatti addebitati, sia sotto il profilo della violazione dell’obbligo di diligenza e di leale cooperazione con il datore di lavoro, ex artt. 2104 e 2105 c.c.,, obbligo in forza del quale il ricorrente avrebbe dovuto astenersi dal porre in essere, durante l’orario di lavoro, avances, battute e toccamenti reciproci con altra persona e informare della presenza della stessa; sia per ciò che riguardava la condotta estranea alla sfera contrattuale delle prestazioni, consistita nell’avere intrattenuto rapporti sessuali con la predetta persona, avuto riguardo alle modalità e alle circostanze in cui tale condotta era stata realizzata. Da qui il ricorso per la cassazione della sentenza proposto dal lavoratore affidato a sette motivi

I motivi di ricorso

  1. Con il primo motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere ritenuto provata la lesione del vincolo fiduciario, mediante violazione e falsa applicazione degli artt. 2104 e 2105 c.c., pur essendo stato il ricorrente, all’epoca dei fatti, titolare di una qualifica di operaio generico, non richiedente, come tale, una particolare fiducia, né tale da implicare poteri e responsabilità di controllo o di informativa al datore di lavoro; inoltre, non potrebbe aver leso il vincolo fiduciario l’aver consumato atti sessuali, essendo la consumazione avvenuta all’interno dell’autovettura di proprietà e al di fuori dell’orario di lavoro, così da rientrare nella sfera di libera autodeterminazione della persona.
  2. Con il secondo motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione delle norme di diritto in merito al criterio di proporzionalità tra il fatto commesso e la sanzione irrogata, in particolare sottolineando, al riguardo, di essere stato destinatario di due sole e non gravi sanzioni in ben venti anni di carriera e altresì sottolineando che il comportamento, posto a base della sanzione espulsiva, era stato circoscritto ad un periodo temporale limitato e senza riscontro in periodi precedenti.
  3. Con il terzo motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione o falsa applicazione dell’art. 2105 c.c., avendo la Corte territoriale dato di detta norma una interpretazione estensiva, tale da travalicarne il contenuto economico e funzionale.
  4. Con il quarto motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione della norma di cui all’art. 70 Cost. per avere fatto applicazione degli standard di comportamento elaborati dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, che peraltro ha esclusivamente compiti di nomofilachia e non anche di natura legislativa.
  5. Con il quinto motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione o falsa applicazione degli artt. 2104 e 2105 c.c. per avere dato una inammissibile interpretazione estensiva degli stessi e, in particolare, per avere erroneamente ritenuto la sussistenza di un obbligo di informazione del lavoratore nei confronti dell’azienda.
  6. Con il sesto motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere erroneamente escluso la sussistenza di un licenziamento discriminatorio e per ritorsione, con violazione e falsa applicazione degli artt. 4 L. n. 604/1966, 15 L. n. 300/1970 e 3 L. n. 108/1999, sul rilievo che solo tre dei quaranta dipendenti implicati nella vicenda erano stati licenziati.
  7. Con il settimo motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata per omessa, insufficiente e contraddittoria disamina del materiale probatorio e per non avere disposto l’escussione di S.C..

La Suprema Corte accoglie il primo, il secondo e il terzo motivo di ricorso.

Secondo i giudici di piazza Cavour, la Corte territoriale ha ritenuto che gravasse sul ricorrente “anche in presenza del clima di omertà creatosi tra i dipendenti in servizio presso il magazzino, un obbligo di diligenza e leale cooperazione con il datore di lavoro ex artt. 2104 e 2105 c.c., in forza del quale” egli “non solo avrebbe dovuto astenersi dal porre in essere con la C. durante l’orario di lavoro e nei locali aziendali ‘avances, battute e toccamenti reciproci’, ma avrebbe dovuto pure informare il datore di lavoro della presenza di un soggetto estraneo in stato di disagio psichico che durante tale orario ed in tali locali si intratteneva con siffatte modalità con gli altri dipendenti”.

Quanto alla condotta concretatasi nell’avere avuto rapporti sessuali con altra persona – proseguono gli Ermellini – la Corte territoriale ha osservato che gli stessi erano stati intrattenuti, “ancorché prima dell’inizio o dopo la cessazione del turno di lavoro”, “nell’autovettura” di proprietà del ricorrente lasciata parcheggiata sulla pubblica via nelle immediate vicinanze del posto di lavoro, con persona ben conosciuta nella zona per i suoi problemi psichici”: tali rapporti, ad avviso della Corte territoriale, per le modalità con cui venivano consumati e per le condizioni personali in cui versava tale persona “non appaiono certo aderenti ai doveri di solidarietà sociale ed ai precetti dell’etica comune, sicché anch’essi concorrono a legittimare un giudizio negativo sulla idoneità professionale dell’appellante alla prosecuzione del rapporto, atteso che tale idoneità non può essere disgiunta dalla sussistenza dei requisiti di serietà, onestà e correttezza”

Senonchè, ad avviso della Corte regolatrice, tali osservazioni e considerazioni, che hanno condotto il giudice di secondo grado, insieme con il rilievo che l’appellante era stato già colpito nel novembre e nel dicembre 2006 dalle sanzioni di quattro ore di multa e di tre giorni di sospensione, a ritenere il recesso giustificato e proporzionato, non si sottraggono alle censure formulate.

Secondo i giudici di legittimità, la Corte territoriale ha, infatti, evocato a sostegno della propria decisione l’esistenza di un obbligo (di informare il datore di lavoro) da cui sarebbe stato gravato il ricorrente, obbligo che appare invece estraneo alle mansioni di operaio generico (pacificamente) assegnategli all’epoca dei fatti. Né l’esistenza di un tale obbligo – ad avviso della Suprema Corte – può farsi discendere dalle norme richiamate di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c.

Il dovere di diligenza

Il dovere di diligenza del prestatore di lavoro di cui all’art. 2104 c.c., secondo la Suprema Corte, trova, infatti, il proprio centro e il proprio essenziale limite nella prestazione contrattualmente dovuta, la natura di questa e l’interesse dell’impresa (quali unici criteri di commisurazione normativamente superstiti dopo l’abrogazione dell’ordinamento corporativo) potendo farvi ritenere compresi i soli comportamenti accessori e strumentali al suo più esatto e proficuo inserimento nel ciclo produttivo e nell’organizzazione dell’impresa.

L’obbligo di fedeltà

L’esistenza di un obbligo di informazione a carico del ricorrente non potrebbe neppure farsi discendere nella specie, diversamente da quanto ritenuto dal giudice di appello, dalla norma di cui all’art. 2105 c.c., pur soggetta, con orientamento risalente e consolidato della Suprema Corte (cfr., tra le più recenti, sentenze 10 febbraio 2015, n. 2550 e 9 gennaio 2015, n. 144), ad una interpretazione volta a superarne la ristretta formulazione letterale e a collegarne l’ambito alle clausole generali di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.

Ed invero – a parere dei giudici di legittimità – anche volendo considerare che l’integrazione dell’art. 2105 c.c. con le clausole generali di correttezza e buona fede conduce a non discriminare tra obblighi positivi e obblighi negativi di condotta (quali pure unicamente espressi nella formulazione della norma), resta acquisito, nel solco del richiamato orientamento, che ipotizzate violazioni dell’obbligo, o dovere, di fedeltà, ove interne (come nella specie) all’ambito lavorativo, devono necessariamente correlarsi alla struttura dell’impresa e, in particolare, alla sua complessità organizzativa, così da escludere – in presenza di articolati livelli di controllo e di responsabilità – qualsiasi valenza negativa nell’omissione, da parte del dipendente, dei pretesi comportamenti attivi.

E la sentenza impugnata non si sottrae neppure alle censure del ricorrente neanche nella parte in cui richiama le modalità di consumazione dei rapporti sessuali con altra persona e ne stabilisce la concorrente efficacia a determinare un giudizio negativo sulla idoneità professionale dell’appellante alla prosecuzione del rapporto di lavoro.

Difatti – a parere degli Ermellini – sotto un primo e preliminare profilo, la sentenza, affermando che tali comportamenti “non appaiono certo aderenti ai doveri di solidarietà sociale ed ai precetti dell’etica comune”, trascura di fatto, con il riferimento a concetti generali e di ampio e variabile contenuto, di compiere quell’operazione di individuazione dei parametri normativi che è pur necessaria a concretizzare, nella singola fattispecie, la clausola a formazione aperta di “giusta causa” di licenziamento.

La nozione di giusta causa

In ogni caso, a fronte di una condotta indiscutibilmente riconducibile alla sfera dei rapporti privati, la sentenza impugnata – secondo i giudici di piazza Cavour – non si uniforma alla costante giurisprudenza di legittimità, secondo la quale la valutazione della sussistenza della giusta causa, intesa come grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro e, in particolare, dell’elemento della fiducia, deve essere operata anche con riferimento agli aspetti concreti del singolo rapporto di lavoro e di conseguenza senza tralasciare la posizione del dipendente nell’impresa e il grado di affidamento specificamente richiesto dalle mansioni che gli sono state affidate (cfr., in tal senso, Cass. 23 febbraio 2012, n. 2720), non potendosi ritenere sufficiente, ai fini in esame, una generica correlazione tra il fatto e la qualità di prestatore di lavoro o (come nella specie) tra un fatto extra-lavorativo e la idoneità professionale del prestatore alla prosecuzione del rapporto.

Da qui la cassazione della sentenza impugnata con rinvio anche per le spese alla Corte di appello di Roma in diversa composizione, la quale si atterrà ai seguenti principi di diritto

I principi di diritto

“Non integra violazione del dovere di diligenza, di cui all’art. 2104 c.c., l’omissione, da parte del lavoratore, di una condotta che non sia prevista tra quelle contrattualmente dovute né comunque risulti, ai fini della esecuzione più utile della prestazione di lavoro, ad esse complementare o accessoria.

Non integra violazione dell’obbligo di fedeltà, di cui all’art. 2105 c.c., anche inteso come generale dovere di leale cooperazione nei confronti del datore di lavoro a tutela degli interessi dell’impresa, l’omissione da parte del lavoratore di condotte che, oltre a non rientrare nell’ambito delle prestazioni contrattualmente dovute, siano connesse a superiori livelli di controllo e di responsabilità, in presenza di un assetto dell’impresa caratterizzato da accentuata complessità e articolazione organizzativa.

In tema di licenziamento per giusta causa, deve aversi riguardo, nella valutazione dell’idoneità della condotta extra-lavorativa del dipendente ad incidere sulla persistenza dell’elemento fiduciario, anche alla natura e alla qualità del rapporto, al vincolo che esso comporta e al grado di affidamento che sia richiesto dalle mansioni espletate”.

Una breve riflessione

Interessante sentenza che interviene sulla nozione di giusta causa di licenziamento, di obbligo di fedeltà e sul dovere di diligenza gravanti sul lavoratore.

Come si può notare, la Suprema Corte pone l’accento sul tipo di mansioni svolte dal lavoratore, sulla organizzazione aziendale e sulla valutazione dell’idoneità della condotta extra-lavorativa del dipendente ad incidere sulla persistenza dell’elemento fiduciario.

La sentenza si sofferma, in particolare, proprio sulla condotta extra-lavorativa del dipendente per comprendere quando e come tale condotta possa legittimare una sanzione espulsiva. E la valutazione deve tenere conto, per l’appunto, dell’elemento fiduciario, così come della natura e qualità del rapporto.

Tanto maggiore sarà il grado di affidamento che sia richiesto dalle mansioni espletate, tanto maggiore sarà la valutazione negativa che l’Azienda potrà fare in ordine alla idoneità della condotta extra-lavorativa.

In ogni caso, si tratta di una valutazione che dovrà essere fatta caso per caso. Ma si tratta di una valutazione che dovrà essere comunque fatta e della quale dovrà essere fornita una adeguata motivazione per il necessario controllo. E se ciò non avviene, come nel caso di specie, il procedimento rischia di regredire affinchè il giudice dia conto, nella motivazione, del “percorso” seguito.

avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)

managing partner at clouvell (www.clouvell.com)

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