Cassazione civile – sezione quinta – sentenza n.12295 del 12 giugno 2015.

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Fatto.

(Omissis), imprenditrice individuale esercente attività cessata in data 31 dicembre 1996, propose, in data 27 ottobre 2005, istanza di rimborso dell’imposta sul valore aggiunto relativa all’anno d’imposta 1996, che non ebbe risposta dall’Agenzia delle entrate. Impugnando il silenzio-rifiuto, la contribuente rappresentò che, nel redigere la dichiarazione per l’anno d’imposta in questione, in luogo di chiedere il rimborso del credito, lo aveva portato a nuovo, per errore materiale evidente, visto che aveva cessato l’attività alla fine dell’anno d’imposta in oggetto, chiudendo la partita iva; dedusse, quindi, che al diritto al rimborso andava applicato il termine di prescrizione decennale e non già quello di decadenza biennale.

La Commissione tributaria provinciale ha respinto il ricorso della contribuente e quella regionale ne ha respinto l’appello, ritenendo applicabile il termine biennale di decadenza, nel caso in esame inutilmente decorso.

Avverso questa sentenza propone ricorso (Omissis), per ottenerne la cassazione, affidandolo ad otto motivi, cui l’Agenzia replica con controricorso.

Diritto.

1.- I primi due motivi di ricorso, rispettivamente proposti ex art. 360, co., n. 1 e 4, c.p.c., con i quali la contribuente lamenta il difetto di giurisdizione, rappresentando che la sentenza impugnata è stata pronunciata da un organo giudicante (la Commissione tributaria regionale di Roma sez. 28) inesistente nell’ordinamento e la nullità della sentenza perché resa da soggetto non qualificabile come giudice, sono manifestamente infondati, essendo evidente che l’inesatta intestazione della sentenza, riferita in maniera imprecisa alla Commissione tributaria regionale di Roma, anziché alla Commissione tributaria regionale del Lazio in nulla incide sull’identificazione dell’organo giudicante.

2.- Quanto alle altre doglianze, rilievo assorbente assume il profilo della violazione di legge dedotto col sesto motivo, col quale, tra l’altro, la contribuente si duole della violazione dell’art. 21 del decreto legislativo n. 546 del 1992, dell’art. 2946 del codice civile nonché degli articoli 30, 2° comma e 38-bis del decreto del Presidente della Repubblica 633 del 1972, deducendo l’inapplicabilità del termine di decadenza biennale stabilito dall’alt 21, trovando, di contro, applicazione, al cospetto di rimborsi ex art. 30 del d.p.r. 633, il termine di decennale di prescrizione.

In un sistema come quello dell’IVA, caratterizzato dalla neutralità dell’imposta, ossia dall’obbligo di riversarla per l’operatore che l’incassa, e dalla possibilità di recuperarla per l’operatore che la paga, il legislatore, col 2° comma dell’art. 30 del d.p.r. n. 633 del 1972, garantisce il diritto al rimborso del soggetto passivo che abbia cessato l’attività; e lo garantisce “comunque!”, giacché egli non può più esercitare quello di detrazione, a causa giustappunto della cessazione dell’attività (in termini, Cass. 24 giugno 2011, n. 13920; 23 aprile 2010, n. 9794).

3.- Ciò posto, ad integrare il fatto costitutivo del diritto è sufficiente che esso risulti esposto in dichiarazione, in esito al consolidamento del rapporto tributario. La presentazione dell’istanza di rimborso, difatti, integra soltanto il presupposto per l’esigibilità del credito, ossia l’adempimento utile a promuovere il procedimento di esecuzione del rimborso (fra varie, Cass. 1 ottobre 2014, n. 20678; ord. 6 novembre 2013, n. 24889; 12 settembre 2012, n. 15229).

La corte, per conseguenza, ha già da tempo superato l’orientamento (rappresentato, tra le altre, da Cass. 16 settembre 2011, n. 18920 e 18915), che assoggetta il diritto al termine di decadenza biennale previsto, in via residuale, dall’articolo 21 del d.leg. 546/92, in tal maniera confondendo il fatto costitutivo del diritto col presupposto di esigibilità del credito.

L’esposizione del credito d’imposta in dichiarazione, come nel caso in esame è avvenuto, esclude allora la necessità, da parte del contribuente, di alcun ulteriore adempimento, al fine di ottenere il rimborso, occorrendo soltanto che l’amministrazione eserciti, sui dati esposti in dichiarazione, il potere-dovere di controllo secondo la procedura di liquidazione delle imposte, oppure, ricorrendone i presupposti, secondo lo strumento della rettifica della dichiarazione.

Il che significa che, consolidatosi il credito, l’Agenzia è tenuta ad eseguire il rimborso e il relativo credito del contribuente è soggetto all’ordinaria prescrizione decennale (vedi in termini anche Cass. 27 marzo 2013, n. 7706 e, da ultimo, ord. 12 marzo 2015, n. 5024).

3.- Il ricorso va in conseguenza accolto e la sentenza cassata; non occorrendo ulteriori accertamenti di fatto, il giudizio va deciso nel merito, con l’accoglimento dell’impugnazione originariamente proposta.

Il consolidamento della giurisprudenza in epoca successiva alla proposizione del ricorso comporta la compensazione delle spese di lite riguardanti le fasi di merito; quelle inerenti al giudizio di legittimità seguono, invece, la soccombenza.

per questi motivi

La Corte:

respinge il primo ed il secondo motivo di ricorso, accoglie il sesto motivo, assorbiti i restanti, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie l’impugnazione originariamente proposta. Compensa le spese inerenti alle fasi di merito e condanna l’Agenzia a pagare quelle concernenti il giudizio di legittimità, che liquida in euro 8000,00 per compensi, oltre ad curo 200,00 per esborsi ed oltre alle spese forfetarie, nella misura del 15%.

Così deciso in Roma, il 28 aprile 2015.

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