Abuso del diritto e clausola risolutiva espressa

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Anche in presenza di clausola risolutiva espressa, i contraenti sono tenuti a rispettare il principio generale della buona fede ed il divieto di abuso del diritto, preservando l’uno gli interessi dell’altro. Il potere di risolvere di diritto il contratto avvalendosi della clausola risolutiva espressa, in particolare, è necessariamente governato dal principio di buona fede, da tempo individuato dagli interpreti sulla base del dettato normativa (art. 1175, 1375,  1356,  1366,  1371,  c.c.,  ecc.)  come  direttiva fondamentale per valutare l’agire dei privati e come concretizzazione delle regole di azione per i contraenti in ogni fase del rapporto (precontrattuale, di conclusione e di esecuzione del contratto). Il principio di buona fede si pone allora, nell’ambito della fattispecie dell’art. 1456 c.c., come canone di valutazione sia dell’esistenza dell’inadempimento, sia del conseguente legittimo esercizio del potere unilaterale di risolvere il contratto, al fine di evitarne l’abuso ed impedendone l’esercizio ove contrario ad essa (ad esempio escludendo i comportamenti puramente pretestuosi, che quindi non riceveranno tutela dall’ordinamento). Dunque, pure in presenza della clausola risolutiva espressa, per il contraente non inadempiente vige il precetto generale ex art. 1375 c.c., il quale gli impone in primis di valutare la condotta di controparte in tale prospettiva collaborativa; quindi, sarà il giudice a dover valutare le condotte in concreto tenute da entrambe le parti del rapporto obbligatorio, allorché sia adito con la domanda volta alla pronuncia dichiarativa ex art. 1456 c.c.; e, se da tale valutazione risulti che la condotta del debitore, pur realizzando sotto il profilo materiale il fatto contemplato dalla clausola risolutiva espressa, è conforme al principio della buona fede, ciò lo condurrà ad escludere la sussistenza dell’inadempimento tout court e, quindi, dei presupposti per dichiarare la risoluzione del contratto.  L’inadempimento  all’obbligazione,  contrattualmente previsto come integrativo del potere di provocare in via potestativa la risoluzione del contratto, deve cioè essere effettivo, perché la previsione negoziale è da interpretare ed eseguire secondo buona fede.

Lo ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione – sezione prima civile – con sentenza n. 23868 del 23 novembre 2015

Abuso del diritto e clausola risolutiva espressa

Abuso del diritto e clausola risolutiva espressa

Il caso

Con sentenza del 26 aprile 2010, la Corte d’appello di Torino, in riforma della sentenza impugnata, dichiarava risolto, per fatto e colpa della concedente, il contratto di licenza di marchio concluso fra la medesima e la licenziataria, condannando la prima al risarcimento del danno in € 252.210,55, da rivalutare secondo gli indici Istat dal mese di ottobre 2003 e con interessi sulla somma anno per anno rivalutata, nonché alla restituzione della somma di € 15.884,48.

La sentenza della Corte territoriale

Riteneva la corte territoriale che non erano stati provati gli allegati fatti di inadempimento della licenziataria al contratto di licenza, contestati dalla concedente con la lettera del 15 ottobre 2003 di esercizio della facoltà di risoluzione di diritto ex art. 1456 c.c., dal momento che, in particolare, non sussisteva inadempimento: a) all’obbligo di fornire alla fine di ogni campagna di vendita i listini dei prezzi in vigore ed ogni informazione che sarebbe stata chiesta circa la vendita dei prodotti, posto che non era dato sapere se fosse finita la campagna di vendita e non erano state avanzate richieste di listini o informazioni; b) all’obbligo di inviare l’estratto conto relativo al primo semestre del 2003, posto che non furono emesse fatture in tale periodo, tranne una di appena € 123,86, emessa l’ultimo giorno del primo semestre, onde era ragionevole ritenere che l’esistenza dell’unico documento fosse da comunicare insieme all’elenco delle fatture emesse nel secondo semestre 2003; c) all’obbligo di permettere l’accesso degli ispettori della concedente alla documentazione della controparte, posto che fu semplicemente richiesto alla prima di indicare una data diversa per l’accesso.

Aggiungeva che le ulteriori violazioni allegate non erano idonee a condurre neppure all’accoglimento della subordinata domanda di risoluzione per inadempimento, atteso che esse nessuna incidenza ebbero sull’andamento del rapporto e furono pretestuosamente addotte solo dopo l’irrimediabile rottura della reciproca collaborazione.

Riteneva, viceversa, provato l’inadempimento della concedente, che con il suo comportamento aveva così impedito alla controparte l’ulteriore utilizzazione del marchio, liquidando il danno emergente ed il lucro cessante, oltre ad una somma a titolo di restituzione parziale delle royalties versate e non dovute.

Avverso questa sentenza proponeva ricorso la soccombente, affidato a sette motivi. Resisteva con controricorso l’intimata.

I motivi di ricorso

La ricorrente censura la sentenza impugnata sulla base di sette motivi, tra cui vengono in rilievo, per i fini che riguardano l’argomento trattato, i primi tre:

1) violazione e falsa applicazione dell’art. 1456 c.c., perché il contratto inter partes aveva previsto la clausola risolutiva  espressa  in  caso  d’inadempimento  della licenziataria all’obbligo di trasmettere, alla fine di ogni campagna di vendita, i listini dei prezzi in vigore da essa applicati e le ulteriori informazioni sulla rete distributiva e le vendite: ma la corte territoriale ha ritenuto insussistente tale inadempimento, sull’assunto che sarebbe mancato il previo invito della concedente la licenza del marchio: laddove invece, per contratto, l’obbligo avrebbe dovuto essere spontaneamente assolto, onde la corte del merito ha sindacato inopinatamente le modalità di adempimento pattuite;

2) violazione degli art. 1218, 1456 e 2697 c.c., perché la sentenza impugnata ha ritenuto non provata la conclusione della campagna di vendita prevista nella predetta clausola contrattuale, laddove invece il creditore doveva unicamente provare la fonte del suo diritto ed allegare l’altrui inadempimento, anche per il principio della vicinanza della prova;

3) violazione e falsa applicazione dell’art. 1456 c.c., in quanto la sentenza impugnata, nonostante che controparte avesse omesso di trasmettere alla concedente l’estratto conto relativo alle fatture di vendita emesse nel primo semestre del 2003, come imposto dal contratto, aveva tuttavia escluso l’inadempimento della licenziataria al riguardo, per il fatto che si era accertata l’emissione di un’unica fattura in quel semestre, onde, secondo la corte del merito, sarebbe stato ragionevole ritenere che l’esistenza di questo unico documento, emesso l’ultimo giorno del primo semestre, fosse da comunicare con il semestre successivo: la circostanza, tuttavia, era emersa in sede di c.t.u. e la concedente la ignorava, allorché aveva esercitato la facoltà di risoluzione di diritto; mentre la valutazione della gravità esulava dalle valutazioni di cui alla norma predetta;

L’esame dei primi due motivi di ricorso

Secondo i giudici di legittimità, la corte del merito ha ritenuto insussistente l’inadempimento all’obbligo della licenziataria di trasmettere, alla fine di ogni campagna di vendita, i listini dei prezzi in vigore da essa applicati e le ulteriori informazioni sulla rete distributiva e sulle vendite, perché non risultava provata la conclusione della cd. campagna e non risultavano mai richieste le informazioni.

Si  tratta – proseguono gli Ermellini –  di  un’interpretazione  della  clausola negoziale, laddove essa – per come riferita nel ricorso e nella sentenza – prevede che “la licenziataria dovrà, alla fine di ogni campagna di vendita, fornire alla concedente i listini del prezzi ed ogni informazione che le verrà richiesta in ordine alla distribuzione ed alla vendita del prodotti”.

Per i giudici di legittimità, la clausola è stata interpretata dalla corte del merito nel senso che occorresse la previa conclusione della c.d. campagna di vendita e la richiesta di informazioni, evenienze entrambe non provate.

L’interpretazione della clausola negoziale in sede di legittimità

Ricordano i giudici di piazza Cavour che in tema di interpretazione del contratto, il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sé, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma afferisce solo alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica e della coerenza e logicità della motivazione addotta, con conseguente inammissibilità di ogni critica alla ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da questi esaminati (da ultimo, Cass. 10 febbraio 2015, n. 2465).

D’altro  canto – proseguono gli Ermellini – anche  l’accertamento  svolto  e l’apprezzamento, operato dal giudice di merito, dei fatti della controversia e delle prove non può essere in sede di legittimità riproposto, atteso che è inammissibile la prospettazione, innanzi alla Corte, di una mera spiegazione di tali fatti e delle risultanze istruttorie con una logica alternativa, pur se supportata dalla possibilità o dalla probabilità di corrispondenza alla realtà fattuale, occorrendo invece che essa appaia come l’unica possibile e venga adeguatamente denunziata ex all’art. 360, l° comma, n. 5 c.p.c. (per le cause cui era applicabile la versione della norma anteriore a quella ora in vigore).

Il richiamo al principio della vicinanza della prova.

Concludono sul punto i giudici della Suprema Corte che anche il richiamo al principio della vicinanza della prova, dalla ricorrente accennato, non coglie nel segno, dal momento che la conclusione della cd. campagna di vendita è fatto esterno alla immediata ed esclusiva sfera della licenziataria, onde ben avrebbe potuto, senza aggravio eccessivo per l’assolvimento dell’onere probatorio medesimo, essere dimostrato con ogni mezzo dall’interessata, e tenuto conto che il principio di vicinanza della prova non è invocabile in relazione ad una circostanza comune ad entrambe le parti.

Il terzo motivo del ricorso.

Per i giudici di piazza Cavour, poi, non sussiste la denunziata violazione dell’art. 1456 c.c. e del pacifico e condivisibile principio, dalla ricorrente richiamato, secondo cui esula da tale disposizione l’accertamento della gravità dell’inadempimento per gli interessi del creditore, di cui all’art. 1455 c.c.

Precisano gli Ermellini, infatti, che la corte territoriale non ha affermato di ritenere l’inadempimento in questione di scarsa rilevanza, bensì lo ha escluso. Essa, nel reputare “ragionevole” la comunicazione dell’unico documento del semestre insieme all’elenco delle fatture emesse nel semestre successivo, ha fatto invece nella sostanza applicazione del principio, pur ivi non espressamente menzionato, previsto dall’art. 1375 c.c., che impone ai contraenti il comportamento secondo buona fede.

L’abuso del diritto e la clausola risolutiva espressa

Anche in presenza di clausola risolutiva espressa, i contraenti sono tenuti a rispettare il principio generale della buona fede ed il divieto di abuso del diritto, preservando l’uno gli interessi dell’altro. Il potere di risolvere di diritto il contratto avvalendosi della clausola risolutiva espressa, in particolare, è necessariamente governato dal principio di buona fede, da tempo individuato dagli interpreti sulla base del dettato normativa (art. 1175, 1375,  1356,  1366,  1371,  c.c.,  ecc.)  come  direttiva fondamentale per valutare l’agire dei privati e come concretizzazione delle regole di azione per i contraenti in ogni fase del rapporto (precontrattuale, di conclusione e di esecuzione del contratto).

Il principio di buona fede si pone allora, nell’ambito della fattispecie dell’art. 1456 c.c., come canone di valutazione sia dell’esistenza dell’inadempimento, sia del conseguente legittimo esercizio del potere unilaterale di risolvere il contratto, al fine di evitarne l’abuso ed impedendone l’esercizio ove contrario ad essa (ad esempio escludendo i comportamenti puramente pretestuosi, che quindi non riceveranno tutela dall’ordinamento).

Dunque – proseguono i giudici di piazza Cavour – pure in presenza della clausola risolutiva espressa, per il contraente non inadempiente vige il precetto generale ex art. 1375 c.c., il quale gli impone in primis di valutare la condotta di controparte in tale prospettiva collaborativa; quindi, sarà il giudice a dover valutare le condotte in concreto tenute da entrambe le parti del rapporto obbligatorio, allorché sia adito con la domanda volta alla pronuncia dichiarativa ex art. 1456 c.c. (cfr. Cass. 6 febbraio 2007, n. 2553); e, se da tale valutazione risulti che la condotta del debitore, pur realizzando sotto il profilo materiale il fatto contemplato dalla clausola risolutiva espressa, è conforme al principio della buona fede, ciò lo condurrà ad escludere la sussistenza dell’inadempimento tout court e, quindi, dei presupposti per dichiarare la risoluzione del contratto.

L’inadempimento  all’obbligazione,  contrattualmente previsto come integrativo del potere di provocare in via potestativa la risoluzione del contratto, deve cioè essere effettivo, perché la previsione negoziale è da interpretare ed eseguire secondo buona fede.

Il tema, quindi, attiene non al requisito soggettivo della colpa, ma a quello oggettivo della condotta inadempiente, che in concreto manca, laddove essa – secondo una lettura condotta alla stregua del canone della buona fede – risulti in concreto inidonea ad integrare la fattispecie convenzionale, onde implausibile, secondo il medesimo canone, risulti l’esercizio del diritto di risoluzione da parte dell’altro contraente.

Da qui il rigetto del ricorso, essendo stati ritenuti infondati anche i restanti motivi di ricorso.

Una breve riflessione

L’argomento trattato dalla Suprema Corte è di grande attualità: abuso del diritto e canoni di correttezza e buona fede sono al centro di un acceso dibattito dottrinale e giurisprudenziale.

La particolarità della decisione della Suprema Corte in rassegna (e delle sentenze di merito dei precedenti gradi di giudizio) riposa proprio nel principio in forza del quale i contraenti sono tenuti a rispettare il principio generale della buona fede ed il divieto di abuso del diritto, preservando l’uno gli interessi dell’altro.

Tale principio di buona fede si trasforma, pertanto, in un canone di valutazione sia dell’esistenza dell’inadempimento, sia del conseguente legittimo esercizio del potere unilaterale di risolvere il contratto, al fine di evitarne l’abuso ed impedendone l’esercizio ove contrario ad essa.

Dunque, il contraente non inadempiente non potrà limitarsi a constatare l’inadempimento ed esercitare il diritto potestativo derivante dalla clausola, ma dovrà valutare la condotta di controparte nel prospettiva collaborativa, diguisachè, qualora la condotta del debitore, pur realizzando sotto il profilo materiale il fatto contemplato dalla clausola risolutiva espressa, è conforme al principio della buona fede, ciò dovrà condurre il giudice ad escludere la sussistenza dell’inadempimento tout court e, quindi, dei presupposti per dichiarare la risoluzione del contratto.

Come dire, la parte formalmente inadempiente potrà non essere considerata tale dal giudice qualora venga accertato che controparte, anziché muoversi in una prospettiva collaborativa e di buona fede, abbia abusato dello strumento a sua disposizione (clausola risolutiva).

Un principio, quello elaborato dalla Suprema Corte, davvero interessante laddove afferma che i contraenti sono tenuti a preservare l’uno gli interessi dell’altro. Un principio che dovrebbe essere esteso ad ogni altra ipotesi in cui una parte, pur adempiendo formalmente ad un precetto di legge o di contratto, ponga in essere una condotta di abuso del diritto o dello specifico strumento processuale o sostanziale messo a disposizione dall’ordinamento giuridico.

avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)

managing partner at clouvell (www.clouvell.com)

 

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