Un passo in avanti per i diritti di libertà: articolo 516 del codice di procedura penale sotto la scure della Corte Costituzionale

Download PDF

Corte Costituzionale, sentenza 1 – 5 dicembre 2014, n. 273

Se il fatto contestato muta in dibattimento, l’imputato può sempre chiedere il giudizio abbreviato.

Lo ha stabilito la Corte Costituzionale con la sentenza indicata in epigrafe, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 516 del codice di procedura penale nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al fatto diverso emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale, che forma oggetto della nuova contestazione.

L’articolo 516 del codice di procedura penale stabilisce che: “se nel corso dell’istruzione dibattimentale il fatto risulta diverso da come è descritto nel decreto che dispone il giudizio, e non appartiene alla competenza di un giudice superiore, il pubblico ministero modifica l’imputazione e procede alla relativa contestazione.1 bis. Se a seguito della modifica il reato risulta attribuito alla cognizione del tribunale in composizione collegiale anziché monocratica, l’inosservanza delle disposizioni sulla composizione del giudice è rilevata o eccepita, a pena di decadenza, immediatamente dopo la nuova contestazione ovvero, nei casi indicati dagli articoli 519 comma 2 e 520 comma 2, prima del compimento di ogni altro atto nella nuova udienza fissata a norma dei medesimi articoli.1 ter. Se a seguito della modifica risulta un reato per il quale è prevista l’udienza preliminare, e questa non si è tenuta, l’inosservanza delle relative disposizioni è eccepita, a pena di decadenza, entro il termine indicato dal comma 1 bis.

Nel caso trattato dalla sentenza, i due “imputati appellanti erano stati tratti originariamente a giudizio per rispondere di tentata estorsione aggravata continuata, in concorso tra loro e di altro coimputato. Nel corso del giudizio di primo grado, il pubblico ministero aveva modificato l’imputazione ai sensi dell’art. 516 cod. proc. pen., contestando – limitatamente ad una delle condotte intimidatorie per le quali si procedeva – la forma consumata, anziché quella tentata del delitto di estorsione: ciò, sulla base delle dichiarazioni rese in dibattimento dal coimputato, stando alle quali l’offeso avrebbe nell’occasione ceduto alle pressioni, versando agli imputati una somma di denaro. A seguito della modifica, lo stesso pubblico ministero aveva chiesto l’ammissione di una nuova prova, rappresentata dall’esame di un collaboratore di giustizia, mentre i difensori avevano chiesto ed ottenuto la concessione di un termine a difesa. Alla successiva udienza, i difensori di tutti gli imputati avevano chiesto che il processo fosse definito con giudizio abbreviato ai sensi dell’art. 516 cod. proc. pen., interpretato alla luce della «lettura combinata» delle sentenze della Corte costituzionale n. 333 del 2009 e n. 237 del 2012. In subordine, ove tale interpretazione non fosse ritenuta praticabile, avevano eccepito l’illegittimità costituzionale del citato articolo per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost”.

Le norme della Costituzione violate.

La Corte Costituzionale ha sostenuto che “Con la sentenza n. 237 del 2012, questa Corte – superando il diverso indirizzo espresso in precedenti pronunce, risalenti agli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore del nuovo codice di rito – ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione del principio di eguaglianza e del diritto di difesa (artt. 3 e 24, secondo comma, Cost.), l’art. 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non consente all’imputato di chiedere il giudizio abbreviato al giudice del dibattimento in relazione al reato concorrente oggetto di contestazione suppletiva cosiddetta “fisiologica”: volta, cioè, ad adeguare l’imputazione alle nuove risultanze dell’istruzione dibattimentale.Le considerazioni poste a base di detta decisione risultano estensibili, con gli opportuni adattamenti, anche alla contestazione “fisiologica” del fatto diverso, operata ai sensi dell’art. 516 cod. proc. pen.: disposizione che – sotto la rubrica «Modifica della imputazione» – stabilisce, al comma 1, che «Se nel corso dell’istruzione dibattimentale il fatto risulta diverso da come è descritto nel decreto che dispone il giudizio, e non appartiene alla competenza di un giudice superiore, il pubblico ministero modifica l’imputazione e procede alla relativa contestazione». Le fattispecie regolate dagli artt. 516 e 517 cod. proc. pen. sono già state, del resto, accomunate da questa Corte nelle analoghe declaratorie di illegittimità costituzionale inerenti alle contestazioni dibattimentali cosiddette “tardive” o “patologiche”, relative, cioè, a fatti che già risultavano dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale: contestazioni che una consolidata giurisprudenza di legittimità reputa ammissibili, malgrado il tenore letterale apparentemente contrario delle citate disposizioni del codice di rito (sentenze n. 333 del 2009 e n. 265 del 1994, concernenti, rispettivamente, il giudizio abbreviato e il “patteggiamento”). Altrettanto è avvenuto – a prescindere da ogni distinzione fra contestazioni “fisiologiche” e “patologiche” – con riguardo alla mancata previsione della facoltà dell’imputato di presentare domanda di oblazione in rapporto al reato oggetto della nuova contestazione (sentenza n. 530 del 1995).
3.– È ben vero che tra la contestazione del reato concorrente e la contestazione del fatto diverso vi è un elemento differenziale. La prima, concernendo un addebito aggiuntivo rispetto a quello originario (se pure al medesimo connesso, ai sensi dell’art. 12, comma 1, lettera b, cod. proc. pen.), potrebbe eventualmente dar luogo anche ad una imputazione autonoma, oggetto di un procedimento distinto; la seconda no, trattandosi della mutata descrizione del fatto per il quale è già stata esercitata l’azione penale (addebito sostitutivo). Con la conseguenza che, quando emerga la diversità del fatto, la nuova contestazione dibattimentale rappresenta una soluzione obbligata per il pubblico ministero, non potendo il novum affiorato nell’istruzione dibattimentale formare oggetto di un procedimento separato, stante l’efficacia preclusiva del giudicato.
Tale tratto distintivo non basta, tuttavia, a giustificare discriminazioni tra le due ipotesi sotto il profilo che qui specificamente interessa. In entrambi i casi, la contestazione interviene quando il termine procedimentale perentorio per la richiesta di giudizio abbreviato è già scaduto (tale termine coincide, infatti, con la formulazione delle conclusioni nell’udienza preliminare o, nei procedimenti a citazione diretta, con la dichiarazione di apertura del dibattimento: artt. 438, comma 2, e 555, comma 2, cod. proc. pen.). Anche in rapporto alla contestazione “fisiologica” del fatto diverso vale, quindi, il rilievo di fondo, per cui l’imputato che subisce la nuova contestazione «viene a trovarsi in posizione diversa e deteriore – quanto alla facoltà di accesso ai riti alternativi e alla fruizione della correlata diminuzione di pena – rispetto a chi, della stessa imputazione, fosse stato chiamato a rispondere sin dall’inizio». Infatti, «condizione primaria per l’esercizio del diritto di difesa è che l’imputato abbia ben chiari i termini dell’accusa mossa nei suoi confronti»: e ciò particolarmente in rapporto alla «scelta di valersi del giudizio abbreviato», la quale «è certamente una delle più delicate, fra quelle tramite le quali si esplicano le facoltà defensionali». Di conseguenza, non solo quando all’accusa originaria ne venga aggiunta una connessa, ma anche quando l’accusa stessa sia modificata nei suoi termini essenziali, «non possono non essere restituiti all’imputato termini e condizioni per esprimere le proprie opzioni» (sentenza n. 237 del 2012). Al riguardo, giova evidenziare come il dovere del pubblico ministero di modificare l’imputazione per diversità del fatto risulti strettamente collegato al principio della necessaria correlazione tra accusa e sentenza (art. 521 cod. proc. pen.), partecipando, quindi, della medesima ratio di garanzia (assicurare il contraddittorio sull’accusa e, con esso, il pieno esercizio del diritto di difesa dell’imputato). In questa prospettiva, la giurisprudenza di legittimità è costante nell’affermare che non qualsiasi variazione o puntualizzazione, anche meramente marginale, dell’accusa originaria comporta il suddetto obbligo, ma solo quella che, implicando una trasformazione dei tratti essenziali dell’addebito, incida sul diritto di difesa dell’imputato: in altre parole, la nozione strutturale di «fatto», contenuta nell’art. 516 cod. proc. pen., va coniugata con quella funzionale, fondata sull’esigenza di reprimere solo le effettive lesioni delle facoltà difensive. Correlativamente, è di fronte a simili situazioni – e solo ad esse – che emerge anche l’esigenza di riconoscere all’imputato la possibilità di rivalutare le proprie opzioni sul rito.
Tale esigenza risalta in modo anche più evidente ove si consideri che la modifica dell’imputazione, oltre ad alterare in modo significativo la “fisionomia” fattuale del tema d’accusa, può avere riflessi di rilievo sull’entità della pena alla quale l’imputato si trova esposto e, di conseguenza, sulla incidenza quantitativa dell’effetto premiale connesso al rito speciale (diminuzione della pena di un terzo, nel caso di condanna). La fattispecie oggetto del giudizio a quo è, per questo verso, esemplare: chiamati inizialmente a rispondere di estorsione tentata – reato punito con la pena detentiva minima di un anno e otto mesi di reclusione (oltre la multa) – gli imputati si sono visti contestare in dibattimento, in sua vece, l’estorsione consumata, punita, nel minimo, con pena tripla (cinque anni di reclusione, oltre la multa). 4.– Come rilevato nella sentenza n. 237 del 2012, il regime censurato non può essere giustificato né con gli obiettivi di deflazione processuale propri del giudizio abbreviato, né facendo leva sulla «prevedibilità» della variazione dibattimentale dell’imputazione in un sistema di tipo accusatorio, fondato sul principio della formazione della prova in dibattimento. Quanto, infatti, al primo profilo, l’accesso al rito alternativo a dibattimento iniziato rimane comunque idoneo a produrre un effetto di economia processuale, sia pure attenuato, consentendo – quantomeno – al giudice di decidere sulla nuova imputazione senza il supplemento di istruzione previsto dall’art. 519 cod. proc. pen. In ogni caso, le ragioni della deflazione processuale debbono cedere di fronte alla necessità del rispetto degli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost.: «se pure è indubbio, in una prospettiva puramente “economica”, che più si posticipa il termine utile per la rinuncia al dibattimento e meno il sistema ne “guadagna”, resta comunque assorbente la considerazione che l’esigenza della “corrispettività” fra riduzione di pena e deflazione processuale non può prendere il sopravvento sul principio di eguaglianza né tantomeno sul diritto di difesa» (sentenza n. 237 del 2012). Riguardo, poi, al secondo aspetto, non si può pretendere che l’imputato valuti la convenienza di un rito speciale tenendo conto anche dell’eventualità che, a seguito dei futuri sviluppi dell’istruzione dibattimentale, l’accusa a lui mossa subisca una trasformazione, la cui portata resta ancora del tutto imprecisata al momento della scadenza del termine utile per la formulazione della richiesta. E ciò, tanto più ove si consideri che la vigente disciplina consente al pubblico ministero di procedere a nuove contestazioni – sia del fatto diverso, che del reato connesso o della circostanza aggravante – anche nell’ambito del giudizio abbreviato, in presenza di integrazioni probatorie: ipotesi nella quale è espressamente riconosciuto, peraltro, all’imputato il diritto di rivedere la scelta sul rito, chiedendo che il procedimento prosegua nelle forme ordinarie (art. 441-bis cod. proc. pen.). 5.– Anche in rapporto alla contestazione dibattimentale “fisiologica” del fatto diverso è, d’altro canto, ravvisabile la ingiustificata disparità di trattamento di situazioni analoghe – rilevata dalla sentenza n. 237 del 2012 – conseguente al possibile recupero, da parte dell’imputato, della facoltà di accesso al giudizio abbreviato per circostanze puramente “occasionali” che determinino la regressione del procedimento. Ciò si verifica, in specie, allorché, a seguito delle nuove contestazioni, il reato rientri tra quelli per cui si procede con udienza preliminare e questa non sia stata tenuta. In tale ipotesi, infatti, il giudice – ove la relativa eccezione sia sollevata nei prescritti termini di decadenza – deve disporre la trasmissione degli atti al pubblico ministero (artt. 516, comma 1-ter, e 521-bis cod. proc. pen.), con la conseguenza che l’imputato si vede, di fatto, rimesso in termini per proporre la richiesta di rito alternativo. 6.– Sussiste, infine, anche con riguardo all’ipotesi in questione, l’ingiustificata disparità di trattamento tra giudizio abbreviato e oblazione, parimenti riscontrata nella sentenza n. 237 del 2012. In forza dell’art. 141, comma 4-bis, disp. att. cod. proc. pen. – che si conforma alla sentenza n. 530 del 1995 di questa Corte – nel caso di modifica dell’originaria imputazione in altra per la quale sia ammissibile l’oblazione, l’imputato è, infatti, rimesso in termini per proporre la relativa richiesta”.

E così per la Corte Costituzionale l’articolo 516 cod. proc. pen. va dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al fatto diverso emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale, che forma oggetto della nuova contestazione.

Avv. Filippo Pagano

managing partner at clouvell

Download PDF